Nel cuore dell’Italia medievale, un’epoca in cui la diffidenza verso il diverso si fondeva con l’ortodossia religiosa e la superstizione, emerse una figura destinata a lasciare un segno indelebile nella storia delle persecuzioni: Gabrina degli Albetti. Questa donna, originaria di Reggio Emilia, divenne tristemente nota come una delle prime “streghe” la cui condanna a morte è documentata in Italia, un evento che si consumò nel luglio del 1375. La sua vicenda, sebbene lontana nel tempo, offre uno spaccato profondo sulle dinamiche sociali, sul ruolo femminile e sulla paura della conoscenza non convenzionale.

Gabrina degli Albetti: la “strega” di Reggio Emilia e il potere della conoscenza femminile nel Medioevo
Gabrina era molto più di una semplice popolana. Le testimonianze dell’epoca la descrivono come una donna dotata di un sapere non comune, una guaritrice e una profonda conoscitrice delle proprietà delle erbe, una vera e propria “erbaiola” o “herbaria”. Si ritiene che fosse in grado di comprendere i meccanismi del corpo umano e di decifrare le complesse sfumature delle emozioni, qualità che le permettevano di consigliare e curare coloro che a lei si rivolgevano. In un periodo storico in cui la medicina era prevalentemente dominio maschile e spesso legata alle istituzioni ecclesiastiche, l’audacia di Gabrina di esercitare queste pratiche la poneva in una posizione di rischio, sfidando implicitamente le consolidate gerarchie di potere e sapere.
La sua condanna fu innescata da accuse di sortilegi amorosi. Si vociferava che Gabrina vendesse filtri d’amore per accendere la passione, per separare amanti o per ripristinare desideri sopiti. Tuttavia, dietro queste presunte “magie”, si celava qualcosa di ben più sovversivo e temuto per l’epoca: Gabrina stava involontariamente, o forse consciamente, fornendo alle donne della sua comunità uno strumento potentissimo, e per molti spaventoso: una forma di autonomia sulle proprie scelte, sul proprio corpo e, in ultima analisi, sul proprio destino.

In un’era in cui il ruolo femminile era rigidamente definito e subordinato, la possibilità di influenzare, anche solo percepita, le dinamiche affettive e personali tramite rimedi o incantesimi, rappresentava una minaccia all’ordine patriarcale, rendendola un bersaglio ideale per l’accusa di stregoneria e per la repressione della sua influenza.
Il martirio della conoscenza
La sorte di Gabrina degli Albetti si consumò con una rapidità e una brutalità che riflettono la spietatezza del suo tempo. Le cronache narrano di una condanna senza appello, culminata nell’esecuzione tramite il rogo, con l’accusa formale di “praticare arti oscure e illudere il popolo con inganni del diavolo.” Questa sentenza, sebbene priva del formalismo inquisitorio che si sarebbe diffuso appieno nei secoli successivi, tradiva già l’inquietudine e la paura verso ciò che non era compreso o controllato. La pira divenne il simbolo non solo della punizione divina, ma anche del tentativo umano di estirpare ogni deviazione dalle norme imposte dalla Chiesa e dalla società.
Eppure, al di là delle accuse infamanti e delle fiamme che la consumarono, Gabrina non era una strega nel senso fantastico e malvagio che il termine avrebbe assunto. Era, invece, una donna libera, in un mondo che, per sua intrinseca natura, non perdonava né tollerava la libertà femminile. La sua “colpa” non risiedeva in patti col diavolo o in poteri soprannaturali, ma nella sua indipendenza intellettuale e nella sua capacità di influenzare gli altri attraverso un sapere che trascendeva le conoscenze comuni e le restrizioni imposte alle donne.

Il suo presunto “inganno del diavolo” era, in realtà, la sua conoscenza erboristica, la sua comprensione dei corpi e delle emozioni, la sua abilità di consigliare e, forse, di infondere speranza o di gestire dinamiche affettive attraverso pratiche che, pur non essendo magiche, venivano percepite come tali. Questa autonomia del pensiero e dell’azione rappresentava una minaccia diretta al sistema patriarcale che governava l’epoca, un sistema che vedeva la donna confinata entro ruoli ben definiti, lontano dalla sfera del sapere e del potere.
La storia di Gabrina degli Albetti è, dunque, una testimonianza dolorosa di come la conoscenza femminile non sanzionata e una certa forma di indipendenza potessero essere interpretate come pericolose devianze, punite con la massima ferocia per riaffermare il controllo e l’ordine prestabilito.
L’inizio di una lunga scia di sangue
Oggi, il nome di Gabrina degli Albetti risuona appena nelle pieghe della storia, una figura quasi dimenticata nelle grandi narrazioni del passato. Eppure, la sua storia non è solo un episodio isolato di ingiustizia medievale; essa rappresenta, in modo sinistro e profetico, l’inizio di una lunga scia di sangue che avrebbe macchiato i secoli a venire.

La sua condanna a morte per stregoneria, avvenuta nel lontano 1375 a Reggio Emilia, anticipa di quasi un secolo le grandi ondate di persecuzioni e cacce alle streghe che avrebbero funestato l’Europa rinascimentale e della prima età moderna, mietendo decine di migliaia di vittime innocenti, in gran parte donne. Gabrina non fu un’eccezione, ma una pioniera tragica di un’isteria collettiva e di un’intolleranza che avrebbero devastato intere comunità.
Il fuoco che consumò il corpo di Gabrina non fu solo un elemento purificatore secondo la logica dell’epoca, ma un gigantesco specchio ardente che rifletteva la paura viscerale di una società intera. Era la paura dell’ignoto, del potere femminile non controllato, della conoscenza che sfuggiva ai dogmi ecclesiastici e alle convenzioni patriarcali.
Il timore delle “arti oscure” e degli “inganni del diavolo” non era altro che il travestimento di un panico più profondo: quello di fronte a una donna che osava pensare, curare e agire al di fuori dei ruoli prestabiliti. Il suo essere “guaritrice” e “erbaiola” la collocava in una posizione di influenza sulle comunità, una posizione che, se esercitata da una donna senza l’avallo delle autorità maschili, diventava automaticamente sospetta e, quindi, pericolosa.

In quel rogo, tuttavia, non ardeva solo la paura; vi bruciava anche il coraggio indomito di una donna sola. Il coraggio di Gabrina degli Albetti risiedeva nella sua capacità di persistere nelle sue pratiche, nel suo sapere, e forse nella sua resistenza silenziosa di fronte a un sistema che cercava di annientare ogni forma di autonomia femminile. La sua figura diviene così un simbolo potente: quello della tenacia umana di una donna fronte alla repressione, un faro tragico che illumina la fragilità della libertà individuale di fronte al fanatismo e alla paura collettiva. La sua storia, pur poco nota, ci ammonisce sull’importanza di ricordare le vittime di ieri per difendere le libertà di oggi.