In due anni di pandemia milioni se non miliardi di persone hanno contratto il COVID-19 e la maggior parte ha sperimentato una sindrome in seguito alla guarigione dal virus: il long-COVID.
Questo virus e le conseguenze che comporta nel nostro organismo rappresentano ancora un rebus da risolvere in campo epidemiologico. Al fine di fare chiarezza, scienziati di tutto il mondo stanno raccogliendo quanti più dati e informazioni possibili.
Uno degli effetti più preoccupanti del long-COVID sembra essere una maggiore probabilità di insorgenza di problemi cardio-vascolari, come ictus, infarti e danni ai vasi sanguigni.
Prima di procedere con le analisi e i risultati ottenuti in campo scientifico, facciamo luce sulla definizione di long-COVID.
Cos’è il long-COVID?
Con il termine long-COVID si indica una serie di sintomi riscontrati in seguito alla guarigione in persone che hanno contratto il virus.
Questa definizione sembrerebbe esaustiva, ma in realtà risulta molto difficile definire se una persona sia affetta da long-COVID o meno, per i seguenti motivi:
- I sintomi che rientrano sotto questa definizione sono tantissimi (più di 200) e possono essere più o meno gravi. Esempi sono problemi cardiovascolari, diabete, dolori muscolari o, anche, sindromi molto più debilitanti, come danni polmonari e cerebrali.
- Medici e scienziati di tutto il mondo possono categorizzare in modo differente gli effetti riscontrati nei pazienti, potendo afferire anche ad altre patologie.
- I dati sono esigui per poter avere una valenza statistica.
Nonostante diagnosticare il long-COVID sia ancora altamente complicato, gli epidemiologi stanno raccogliendo dati per comprendere con precisione quali siano i sintomi, le persone più a rischio, le complicanze e l’efficacia dei vaccini nel prevenire la comparsa di questa sindrome.
Gli studi sul long-COVID e le conseguenze sull’apparato cardio-circolatorio
Sebbene lo studio degli effetti a lungo termine del COVID-19 sia ancora agli esordi, scienziati di tutto il mondo concordano sul fatto che anche una lieve infezione causata da questo virus può considerevolmente aumentare il rischio di insorgenza di malattie cardiovascolari.
Ziyad Al-Aly, un epidemiologo americano, ha condotto le sue ricerche sul long-COVID, raccogliendo i dati riguardanti milioni di persone che hanno usufruito del sistema medico del Dipartimento degli Affari dei Veterani degli Stati Uniti.
Il team di Al-Aly ha confrontato tre gruppi di dati:
- il primo gruppo analizzato ha utilizzato il sistema nel 2017, dunque precedentemente alla pandemia;
- il secondo ha usufruito del sistema nel corso della pandemia;
- il terzo, rappresentato da un numero minore, è costituito da veterani esaminati dopo 30 giorni dalla contrazione del COVID-19.
Dall’esaminazione di questi contributi è emerso che il virus incrementa la probabilità di contrarre 20 diverse malattie cardiovascolari entro un anno dal contagio, anche in soggetti non predisposti all’insorgenza di queste patologie e apparentemente guariti completamente dall’infezione del patogeno.
Nello specifico, l’infezione da COVID-19 incrementa, secondo l’analisi del database delle cartelle cliniche analizzate da Al-Aly, la possibilità di manifestazione di ictus del 52% e di insufficienza cardiaca del 72%. Questi sono certamente dati allarmanti, ma bisogna contestualizzarli.
Lo studio di Al-Aly ha incluso un numero elevatissimo di persone esaminate, ma non bisogna confondere quantità con qualità. Infatti, questa analisi, essendo stata svolta nel Dipartimento degli Affari dei Veterani degli Stati Uniti, ha coinvolto maggiormente maschi caucasici adulti.
Al fine di un efficiente studio statistico occorre coprire le diversità della popolazione, poiché ogni persona risponde in modo diverso all’infezione in base al proprio corredo genetico. Ci basti pensare che alcune persone sono risultate geneticamente immuni allo sviluppo dell’infezione virale, mentre altre sono soggette a un decorso clinico preoccupante.
Altri scienziati, impegnati nel comprendere di più la sindrome del long-COVID, sono arrivati alle stesse conclusioni di Al-Aly, ma con percentuali decisamente più basse.
Al contrario, uno studio condotto dallo specialista in imaging cardiaco, Gerry McCann, presso l’Università di Leicester nel Regno Unito, non ha riscontrato una maggiore predisposizione all’insorgenza di problemi cardiovascolari in persone che hanno contratto l’infezione. Tuttavia, questa analisi ha coinvolto la partecipazione di soli 52 pazienti, che rappresenta un numero troppo esiguo per avere valenza statistica.
Per completare il puzzle, è stato introdotto un nuovo studio, denominato RECOVER, che mira ad analizzare e seguire circa 60.000 soggetti di ogni età ed etnia in più di 200 siti negli USA, sottoponendoli frequentemente a test non invasivi per monitorare lo stato di salute del loro apparato cardio-circolatorio.
Questo progetto analizzerà sia persone che hanno contratto il virus, che coloro che non hanno mai sviluppato l’infezione e prevederà che gli analizzati debbano compilare periodicamente dei questionari sulla propria salute generale.
La domanda che ognuno di noi, a questo punto, si pone è la seguente.
Come il virus danneggia il nostro apparato cardio-circolatorio?
Tutti abbiamo certamente sentito parlare, soprattutto con l’avvento dei vaccini, della fantomatica proteina Spike, ma vediamo insieme come essa agisce e perché i ricercatori si sono concentrati proprio sullo studio di quest’ultima per scovare un’arma contro il COVID-19.
Bisogna immaginare la particella virale di SARS-CoV-2 come una siringa pronta a iniettare il proprio materiale genetico all’interno della cellula ospite, ovvero una delle migliaia di cellule del nostro organismo.
Per poter far ciò il patogeno necessita di un accesso, costituito dall’enzima ACE2, presente sulla superficie di decine di tipi di cellule umane, tra cui le cellule endoteliali che fungono da rivestimento dei vasi sanguigni.
Una volta che il virus ha inoculato il proprio RNA all’interno dell’ospite, quest’ultimo andrà incontro a lisi. In altre parole, le cellule vengono degradate in modo da consentire alle neo-particelle virali di essere liberate nell’organismo.
Questo processo causa, ovviamente, dei danni. Al fine di riparare queste lesioni nel rivestimento dei vasi sanguigni, si formano dei coaguli di sangue, che ostruiscono i vasi stessi, aumentando il rischio di infarti, ictus e arresti cardiocircolatori.
Quali sono i soggetti più a rischio di malattie cardiovascolari da long-COVID?
Gli studi condotti dichiarano che l’infezione da SARS-CoV-2 aumenti il rischio di sviluppare problemi cardiaci e vascolari anche in persone completamente sane e che si ritengono guarite al 100% dal COVID-19.
Tuttavia, alcuni soggetti risultano essere molto più a rischio di altri. Per esempio, persone obese, in età avanzata, con uno stile di vita sedentario e che fanno uso di fumo e alcol sono già soggette di per sé a una maggior possibilità di insorgenza di queste patologie e, ovviamente, il virus può solamente incrementare questa percentuale.
Inoltre, sembrerebbe che ci sia una correlazione diretta tra gravità dell’infezione e probabilità di insorgenza di patologie cardio-vascolari.
Nonostante l’aspettativa futura sembrerebbe catastrofica, esistono dei modi per prevenire e abbassare il rischio di sviluppare problemi di questo tipo.
Il modo migliore per ottimizzare il proprio stato di salute e prevenire l’insorgenza di questo tipo di patologie è certamente quello di condurre uno stile di vita sano, di praticare attività fisica e di evitare cibi elaborati.
In aggiunta, bisogna ricordare l’importanza del vaccino anti-COVID, che seppur non garantisca al 100% la protezione dall’infezione, protegge comunque da stadi patologici gravi, i quali aumentano il rischio di sviluppare patologie legate al long-COVID.
Infine, arriviamo all’ultima domanda a cui questo studio cerca di rispondere.
Quanto i vaccini diminuiscono l’insorgenza di patologie cardio-vascolari legate al long-COVID?
Alcuni scienziati sono concordi nell’affermare che il rischio di contrarre patologie dell’apparato cardio-circolatorio in seguito all’infezione da SARS-CoV-2 si riduca del 15% in persone vaccinate; altri, invece, ritengono che addirittura si dimezzi.
Come abbiamo avuto modo di sperimentare più volte in questo articolo, i risultati delle analisi su dati statistici dipendono da numerosi fattori, tra cui numero di persone coinvolte nello studio, stile di vita, etnia e, addirittura, la variante responsabile dell’infezione.
Infatti, uno studio dell’Office for National Statistics (ONS) del Regno Unito ha riscontrato che le persone che avevano contratto l’infezione dalla variante Omicron BA.1 presentavano un’incidenza minore del 50% di sviluppare la sindrome da long-COVID nelle 4-8 settimane successive.
Nonostante i dati possano sembrare discordanti, in realtà, conducono tutti a un’unica conclusione: indipendentemente dalla percentuale con cui ciò avvenga, il COVID-19 è responsabile di diverse complicanze, anche molto gravi.
Per tale motivo, bisogna prevenire l’infezione, adottando le giuste misure di sicurezza, e prestare attenzione alla nostra salute, in modo da poter eventualmente intraprendere un percorso clinico tempestivamente.