Il mondo del lavoro per le donne è un vero e proprio campo da battaglia e la pandemia ha dato il suo pesante contributo a questa dura realtà specialmente per il personale medico e paramedico ma sono le lavoratrici italiane quelle ad essere state colpite dal burnout, un fenomeno globale che però ha affondato i suoi artigli sulle donne italiane.
Lavoratrici italiane colpite dal burnout: ecco di cosa si tratta
Il burnout è una forma di esaurimento causata dal sentirsi costantemente sommersi dalle incombenze della vita. È il risultato di uno stress emotivo, fisico e mentale eccessivo e prolungato .In molti casi, il burnout è legato al proprio lavoro. Man mano che lo stress continua, chi ne è colpito inizia a perdere l’interesse e la motivazione che lo hanno portato ad assumere un certo ruolo.
Il burnout riduce la produttività e consuma le energie, lasciando l’individuo sempre più impotente, senza speranza, cinico e risentito. Alla fine, ci si potrebbe sentire come se non si avesse più niente da dare.
Gli effetti negativi del burnout si riversano in ogni area della vita, compresa la casa, il lavoro e la vita sociale. Il burnout può anche causare cambiamenti a lungo termine nell’organismo che rendono il soggetto vulnerabile a malattie come raffreddore e influenza. A causa delle sue numerose conseguenze, è importante affrontare subito il burnout.
Lo psicologo e psicoterapeuta Luca Dinatale, presidente dell’associazione Gli Sdraiati di Pavia, ha evidenziato il ruolo fallimentare che molte aziende hanno avuto durante il lockdown: “Lo smartworking, invece di essere un luogo in cui il dipendente poteva gestire in modo più agevole anche la vita privata, è diventato tragico ed il burnout è stato per molti la conseguenza delle aziende che durante la pandemia non hanno saputo gestire o bilanciare adeguatamente il carico di lavoro che in molti casi è diventato eccessivo”.
Le donne sono state oggetto di osservazione durante la pandemia e diversi studi hanno rivelato che le lavoratrici italiane erano più sensibili al burnout, nonostante l’insorgenza del problema sia da ricercare molto prima delladiffusione pandemica del Covid19.
In uno studio del del dottor Pedrabissi insieme alla sua equipe, risalente al 2010, pubblicato sulla rivista dedicata Journal of Psychology, è stato rivelato il dato importante sulla condizione di burnout delle insegnanti donne nelle scuole elementari e medie in Italia e in Francia.
Più recententemente, una ricerca condotta da studio di Vitale, Galatola e Mea che approfondito i comportamenti degli operatori sanitari italiani durante l’emergenza pandemica e in particolare delle lavoratrici Italia in questo settore ha dimostrato che sono più colpite da forme di burnout rispetto agli uomini.
È importante però fare una distinzione tra burnout e stress. A tal proposito interviene Dinatale spiegando che: ” Lo stress si verifica quando nonostante le difficoltà sul ruolo di lavoro, si mantiene un’idea di controllo su quello che si sta facendo, con una qualche prospettiva di risoluzione. Il burnout invece crea proprio la sensazione di essere prosciugati, esauriti emotivamente e come incapaci di immaginare una progressione di qualsiasi tipo, che sia di risoluzione all’attuale situazione sul luogo di lavoro”.
Secondo lo studio di McKinsey “.The state of burnout for women in the workplace” , il burnout, o sindrome da stress lavorativo, colpisce maggiormente le lavoratrici. Le percentuali parlano chiaro: si è passati dall’inizio della pandemia ad oggi da un 32% al 42% delle lavoratrici che soffrono di questa condizione emotiva, situazione che ha incrementato l’abbandono del posto di lavoro volontario o di ridimensionamento del proprio ruolo, con tutte le conseguenze del caso.
È importante sottolineare che però le indagini qualitative dimostrano come, all’atto pratico, le lavoratrici siano più resilienti allo stress, essendo più performanti dei colleghi e dando fondo alle risorse adeguate per non soccombere da condividere con il team di lavoro, con conseguenti ripercussioni positive.
Per quanto riguarda le lavoratrici italiane, Cristina Catania, Senior Partner di McKinsey, ha dichiarato: “In Italia il quadro normativo di tutela della salute e sicurezza sul lavoro stabilisce che deve essere valutato il rischio da stress correlato al lavoro e promuove il riconoscimento delle differenze di genere. Già nel 2017, un’indagine condotta in occasione della Giornata Mondiale della Salute Mentale evidenziava che nel nostro Paese il fenomeno dello stress da lavoro colpisce in prevalenza le donne. All’origine“
“Vi sono diversi fattori, tra cui gli impegni famigliari e la maggiore esposizione ad azioni discriminatorie e a barriere culturali che rendono la carriera delle donne più difficoltosa e con retribuzioni inferiori rispetto ai colleghi uomini di pari ruolo e competenze“, ha spiegato l’esperta.
“L’attenzione generale verso la parità di genere continua a crescere – ha continuato Cristina Catania – e le aziende in Italia stanno rafforzando il proprio impegno in questo ambito, anche se resta ancora molta strada da fare, soprattutto per assicurare opportunità di assunzione e di carriera eque, e consentire a sempre più donne di ricoprire ruoli manageriali”.
“Alcuni esempi di iniziative concrete si possono trovare nel Patto Zero Gender Gap, sottoscritto dalle principali aziende nazionali e internazionali in occasione del Women’s Forum G20 Italy dello scorso ottobre, e che McKinsey ha contribuito a elaborare. Per citarne alcune: stabilire target per l’assunzione e la promozione delle donne, avviare programmi di sponsorship ed empowerment, garantire la flessibilità oraria, introdurre KPI dedicati nei sistemi di valutazione“, ha continuato Catania.
“Perché vi sia un cambiamento concreto, le organizzazioni dovrebbero regolarmente misurare con indicatori quantitativi l’efficacia delle proprie iniziative volte a ridurre il divario di genere nel mondo del lavoro, monitorandole nel tempo e assicurandosi che si registri un progressivo miglioramento. Indicatori quantitativi che devono necessariamente essere accompagnati da un cambio di mentalità, anche attraverso specifici programmi di formazione e di iniziative a livello aziendale, al fine di eliminare tutti quegli ‘unconscious bias’ che danneggiano le donne“, ha concluso la studiosa.