Una recente e approfondita ricerca condotta da un team di studiosi della Perelman School of Medicine dell’Università della Pennsylvania ha fornito nuove e significative informazioni sul legame tra la vaccinazione contro il COVID-19 e il rischio di sviluppare la cosiddetta “COVID lunga” in bambini e adolescenti. I risultati di questa analisi indicano che i soggetti non vaccinati appartenenti a questa fascia d’età presentavano una probabilità notevolmente più elevata, fino a venti volte maggiore, di manifestare la sindrome post-COVID rispetto ai loro coetanei che avevano ricevuto il vaccino.

La vaccinazione come strategia chiave per la prevenzione dell’Infezione dei bambini e, conseguentemente, del COVID lungo
L’analisi condotta ha anche rivelato una sfumatura importante nella comprensione del meccanismo protettivo offerto dalla vaccinazione. Sembra infatti che la protezione osservata derivi principalmente dalla capacità del vaccino di prevenire l’infezione iniziale da SARS-CoV-2, piuttosto che da una protezione specifica e diretta contro lo sviluppo della COVID-19 lunga in sé.
Il Professor Yong Chen, Ph.D., professore di biostatistica e autore principale dello studio, ha chiarito questa distinzione concettuale, affermando che “in altre parole, la vaccinazione è stata fondamentale per prevenire l’infezione da COVID-19, il che è importante anche per ridurre il rischio di COVID lungo”. Questa affermazione sottolinea come l’efficacia della vaccinazione nel ridurre l’incidenza della COVID lunga sia in gran parte mediata dalla sua capacità di impedire l’instaurarsi dell’infezione virale primaria. Prevenire l’infezione iniziale significa, di conseguenza, ridurre significativamente la probabilità di sviluppare le sequele a lungo termine associate alla malattia.
Uno dei misteri più persistenti e dibattuti della pandemia di COVID-19 riguarda l’eziologia e i meccanismi patogenetici sottostanti al “COVID lungo”, una condizione caratterizzata da un eterogeneo insieme di sintomi debilitanti che possono insorgere o persistere per settimane, mesi o addirittura più a lungo dopo la risoluzione della fase acuta dell’infezione.

Sebbene i meccanismi biologici precisi che portano allo sviluppo di questa sindrome rimangano ancora in gran parte oscuri, la comunità scientifica è consapevole del fatto che numerose infezioni virali possono frequentemente dare origine a sindromi post-virali, caratterizzate da sintomi comuni ma aspecifici come affaticamento cronico, difficoltà di concentrazione e “annebbiamento mentale”, dolori muscolari e articolari, e disturbi del sonno.
Le infezioni da COVID-19, causate dal nuovo coronavirus SARS-CoV-2, non rappresentano un’eccezione a questa osservazione generale. La COVID lunga, nota più formalmente in ambito scientifico come sequele post-acute dell’infezione da SARS-CoV-2 (PASC), si è manifestata come una complicanza sorprendentemente comune e significativa durante l’intero corso della pandemia.
Anche in un periodo successivo alle fasi più critiche dell’emergenza sanitaria, come nel giugno del 2022, un sondaggio condotto dai Centri statunitensi per il controllo e la prevenzione delle malattie (CDC) suggeriva che una percentuale considerevole della popolazione americana, pari a circa il 7,5%, continuava a soffrire di sintomi prolungati riconducibili all’infezione da COVID-19. Questa percentuale risultava ancora più elevata nella popolazione femminile americana, superando il 9%. La persistenza di questi sintomi a lungo termine rappresenta una sfida significativa per la salute pubblica e per la qualità della vita degli individui colpiti.

Considerando che le cause precise del COVID lungo rimangono ancora oggetto di intensa ricerca e che attualmente non sono disponibili trattamenti universalmente efficaci, numerosi studi precedenti hanno cercato di indagare se la vaccinazione, somministrata prima dell’infezione, potesse offrire una qualche forma di protezione contro lo sviluppo della COVID lunga. Tuttavia, i risultati di queste indagini preliminari si sono spesso rivelati contraddittori e non conclusivi, rendendo difficile trarre indicazioni chiare sull’effettivo ruolo protettivo della vaccinazione nei confronti di questa complicanza a lungo termine.
La nuova ricerca condotta dall’Università della Pennsylvania suggerisce ora che i vaccini potrebbero effettivamente offrire una protezione maggiore contro il COVID lungo di quanto precedentemente ipotizzato.
Il coautore dello studio, il Professor Jeffrey Morris, Ph.D., direttore di Biostatistica, ha evidenziato come “gli studi precedenti che si limitano a confrontare individui vaccinati e non vaccinati potrebbero non cogliere appieno il vero impatto della vaccinazione sul COVID lungo, poiché spesso trascurano il fatto che la vaccinazione riduce sostanzialmente il rischio di infezione in primo luogo”. Questa osservazione metodologica è cruciale per interpretare correttamente i risultati della ricerca.

Confrontare semplicemente l’incidenza del COVID lungo tra vaccinati e non vaccinati senza tenere adeguatamente conto della ridotta probabilità di infezione nel gruppo vaccinato potrebbe portare a sottostimare il beneficio complessivo della vaccinazione nella prevenzione delle sequele a lungo termine. La nuova ricerca ha cercato di superare queste limitazioni metodologiche, fornendo una valutazione più accurata dell’impatto della vaccinazione sul rischio di COVID lungo, considerando il suo ruolo primario nella prevenzione dell’infezione.
È importante sottolineare che la maggior parte delle ricerche precedenti sull’efficacia dei vaccini contro il COVID-19 si è concentrata prevalentemente sulla popolazione adulta. Il Professor Morris ha spiegato la motivazione di concentrare il loro studio su bambini e adolescenti, affermando che “il nostro studio è rivolto a bambini e adolescenti perché le loro risposte immunitarie ai vaccini e lo sviluppo di sintomi prolungati del COVID potrebbero differire significativamente da quelli osservati negli adulti”.

Comprendere le specificità della risposta immunitaria e delle manifestazioni cliniche del COVID-19, inclusa la COVID lunga, nella popolazione pediatrica è fondamentale per sviluppare strategie di prevenzione e gestione mirate ed efficaci per questa fascia d’età. La ricerca dell’Università della Pennsylvania contribuisce in modo significativo a colmare questa lacuna di conoscenza.
L’iniziativa RECOVER illumina l’Eefficacia della vaccinazione pediatrica contro il COVID lungo
Nell’ambito di un’ambiziosa e fondamentale iniziativa di ricerca denominata RECOVER (Researching COVID to Enhance Recovery), volta a raccogliere e ad analizzare in modo sistematico le cartelle cliniche elettroniche provenienti dai sistemi sanitari nazionali al fine di ottenere una comprensione più approfondita della complessa fenomenologia del COVID lungo, un team di ricerca ha condotto uno studio osservazionale di vasta portata. Questo studio si è basato sull’analisi di cartelle cliniche elettroniche anonimizzate relative a una coorte di quasi 400.000 bambini e adolescenti residenti negli Stati Uniti. L’indagine ha estratto dati significativi relativi alle principali ondate pandemiche di COVID-19 che hanno interessato il paese nel corso del 2021 e del 2022.
Al fine di analizzare in modo più granulare l’impatto dello stato vaccinale sull’incidenza del COVID lungo in diverse fasce d’età e durante la prevalenza di differenti varianti virali, i ricercatori hanno meticolosamente costruito tre gruppi separati o “coorti” di giovani, distinti in base allo stato vaccinale e al periodo di osservazione. La prima coorte comprendeva 112.590 adolescenti di età compresa tra i 12 e i 20 anni, i cui dati, relativi al periodo luglio-novembre 2021, sono stati analizzati per valutare l’impatto della vaccinazione durante la fase di predominanza della variante delta del SARS-CoV-2.

Le altre due coorti includevano 188.894 bambini di età compresa tra i 5 e gli 11 anni e 84.735 adolescenti (sempre nella fascia 12-20 anni), i cui dati risalivano al periodo gennaio-novembre 2022, caratterizzato dalla dominanza della variante omicron, consentendo di confrontare l’efficacia vaccinale in un contesto virale differente.
L’analisi dei dati relativi alla prima coorte di adolescenti, esposti prevalentemente alla variante delta nel 2021, ha suggerito un’efficacia vaccinale notevolmente elevata, stimata intorno al 95% nella prevenzione dello sviluppo del COVID lungo. Questo dato implica che gli adolescenti che avevano ricevuto la vaccinazione presentavano una probabilità di contrarre la COVID lunga di solo il 5% superiore rispetto ai loro coetanei non vaccinati.

Per quantificare ulteriormente questa differenza in termini di incidenza, i ricercatori hanno calcolato un tasso di 0,11 casi di COVID lungo nel gruppo vaccinato ogni 10.000 settimane-persona (una misura statistica sofisticata che tiene contemporaneamente conto del numero di partecipanti allo studio e della durata individuale della loro partecipazione nel tempo). Questo valore contrastava in modo eclatante con il tasso di 3,54 casi riscontrato nel gruppo non vaccinato durante lo stesso periodo. Questa differenza quantitativa si traduce in una riduzione del rischio di COVID lungo di ben 32 volte nel gruppo degli adolescenti vaccinati rispetto ai non vaccinati durante l’ondata dominata dalla variante delta.
Un’analisi comparativa per fasce d’età pediatrica
Nel corso del 2022, durante il periodo di prevalenza delle varianti omicron del SARS-CoV-2, la vaccinazione ha continuato a dimostrare una significativa efficacia nella prevenzione dello sviluppo del COVID lungo nelle fasce d’età pediatriche analizzate. Specificamente, nello studio condotto nell’ambito dell’iniziativa RECOVER, è emerso che la vaccinazione è risultata efficace per circa il 60% nella prevenzione del COVID lungo nel gruppo di bambini di età compresa tra i 5 e gli 11 anni. Questa percentuale di efficacia è risultata ancora più elevata nel gruppo degli adolescenti di età compresa tra i 12 e i 20 anni, attestandosi intorno al 75%.
L’analisi dei tassi di incidenza del COVID lungo durante il periodo di predominanza delle varianti omicron ha ulteriormente corroborato il beneficio della vaccinazione. Nel gruppo dei bambini di età compresa tra i 5 e gli 11 anni, il tasso di incidenza del COVID lungo è stato di 0,33 casi ogni 10.000 settimane-persona tra i soggetti vaccinati, mentre è risultato significativamente più elevato, pari a 1,07 casi ogni 10.000 settimane-persona, tra i bambini non vaccinati. Questa differenza quantitativa indica che il tasso di incidenza del COVID lungo è risultato circa tre volte superiore nei bambini non vaccinati rispetto ai loro coetanei vaccinati durante l’ondata omicron.

Una tendenza simile è stata osservata nel gruppo degli adolescenti di età compresa tra i 12 e i 20 anni. In questa fascia d’età, il tasso di incidenza del COVID lungo è stato di 0,24 casi ogni 10.000 settimane-persona tra gli adolescenti vaccinati, in contrasto con un tasso di 1,43 casi ogni 10.000 settimane-persona riscontrato nel gruppo dei non vaccinati. Questa marcata differenza si traduce in un rischio di sviluppare il COVID lungo quasi sei volte inferiore negli adolescenti vaccinati rispetto ai non vaccinati durante il periodo di prevalenza delle varianti omicron.
Un aspetto particolarmente innovativo e illuminante di questa ricerca è rappresentato dall’impiego dell’analisi di mediazione, una tecnica statistica avanzata che ha permesso ai ricercatori di distinguere in modo più preciso la quota di protezione offerta dal vaccino che era direttamente attribuibile alla prevenzione dell’infezione iniziale da un potenziale beneficio diretto sulla durata e la gravità del COVID lungo una volta che l’infezione si era verificata.
Il primo autore dello studio, Qiong Wu, Ph.D., che ha condotto questa ricerca durante il suo periodo come ricercatore post-dottorato presso la Penn Medicine e che attualmente ricopre la carica di professore associato presso l’Università di Pittsburgh, ha spiegato come questa analisi abbia permesso di isolare i diversi meccanismi attraverso i quali la vaccinazione esercita il suo effetto protettivo.

I risultati dell’analisi di mediazione hanno suggerito un’implicazione cruciale: una volta che l’infezione da SARS-CoV-2 si era instaurata, i bambini e gli adolescenti che avevano ricevuto la vaccinazione non presentavano una probabilità significativamente diversa di sviluppare il COVID lungo rispetto ai loro coetanei non vaccinati. Questo risultato sembra indicare l’assenza di un ulteriore effetto protettivo specifico del vaccino sulla patogenesi o sulla risoluzione del COVID lungo una volta che l’individuo era stato infettato. In altre parole, la vaccinazione sembra esercitare la sua principale azione protettiva contro il COVID lungo attraverso la sua comprovata efficacia nel prevenire l’infezione iniziale da SARS-CoV-2.
In sintesi, i risultati di questa approfondita analisi condotta nell’ambito dell’iniziativa RECOVER rafforzano l’importanza cruciale della prevenzione primaria dell’infezione da COVID-19, ottenuta anche attraverso la vaccinazione, come la strategia più efficace per ridurre significativamente il rischio di sviluppare la debilitante condizione del COVID lungo nella popolazione pediatrica.

Il Professor Yong Chen ha ribadito con forza questo messaggio chiave, affermando che “prevenire le infezioni da COVID-19 in primo luogo, anche attraverso la vaccinazione, sembra essere il modo migliore per evitare la malattia lunga da COVID”. Questo studio sottolinea la necessità di continuare a promuovere la vaccinazione come strumento fondamentale di sanità pubblica per proteggere la salute dei bambini e degli adolescenti dalle conseguenze a lungo termine dell’infezione da SARS-CoV-2. Il Professor Christopher Forrest, MD, Ph.D., professore di pediatria presso il Children’s Hospital di Philadelphia, ha contribuito in modo significativo a questo studio in qualità di co-autore senior.
Lo studio è stato pubblicato su eClinicalMedicine.