Quando la decisione della Corte Suprema Dobbs v. Jackson è arrivata a giugno, ribaltando il diritto all’aborto negli Stati Uniti che Roe v. Wade aveva concesso nel 1973, le conversazioni sull’accesso alle cure riproduttive hanno assunto una rinnovata urgenza. Quasi un anno prima, un team interdisciplinare dell’Università della Pennsylvania e del Children’s Hospital of Philadelphia (CHOP) aveva iniziato a riflettere su questo argomento.
Ran Barzilay della Perelman School of Medicine and CHOP, Jonathan Zandberg della Wharton School e Rebecca Waller del Penn’s Department of Psychology presso la School of Arts & Sciences hanno mostrato che la limitazione dell’accesso all’aborto è collegata a aumento del rischio di suicidio per le donne in età riproduttiva. Non hanno trovato la stessa associazione per le donne anziane o la morte dovuta a incidenti automobilistici.
I risultati di queste valutazioni sono stati pubblicati sulla rivista scientifica JAMA Psychiatry.
Limiti all’aborto: preoccupazione per gli effetti collaterali
“Lo stress contribuisce in modo determinante al carico di salute mentale e uno dei principali fattori di aumento del rischio di suicidio”, ha dichiarato Barzilay, psichiatra e neuroscienziato infantile: “Abbiamo scoperto che questo particolare fattore di stress – la restrizione all’aborto – colpisce le donne di un’età specifica in una specifica causa di morte, che è il suicidio. Questa è la vista di 10.000 piedi”.
Lo studio è emerso dopo che Barzilay, Zandberg e Waller hanno scoperto una sovrapposizione nei loro interessi di ricerca. Zandberg ha osservato attentamente come le restrizioni alle cure riproduttive hanno influenzato la disuguaglianza di genere, Barzilay, i fattori che influenzano la traiettoria della salute mentale di una persona e il rischio di suicidio. Waller si è concentrato sui fattori di stress ambientale che influenzano i genitori e, a sua volta, lo sviluppo del bambino. Anche la data scientist Elina Visoki del laboratorio di Barzilay ha contribuito a questa ricerca.
Il lavoro precedente di Zandberg aveva dimostrato che un accesso più ristretto alle cure riproduttive crea un costoso compromesso tra le aspirazioni di carriera delle donne e le loro scelte di formazione familiare. I ricercatori hanno deciso di esaminare altri aspetti di questa dinamica, esaminando le implicazioni per la salute mentale dell’applicazione di rigorosi diritti riproduttivi e, più specificamente, il rischio di suicidio, la terza principale causa di morte per le persone di età compresa tra 25 e 44 anni negli Stati Uniti.
Hanno condotto quella che viene chiamata un’analisi della differenza nelle differenze, utilizzando dati a livello statale dal 1974 al 2016 e coprendo l’intera popolazione di donne adulte durante quel periodo. “Abbiamo costruito tre indici che misurano l’accesso alle cure riproduttive osservando l’applicazione della legislazione a livello statale”, afferma Zandberg. “Ogni volta che uno stato ha applicato una legge relativa alla cura riproduttiva, l’abbiamo incorporata nell’indice”. Quindi, tra le donne in età riproduttiva, hanno analizzato i tassi di suicidio prima e dopo l’entrata in vigore delle leggi restrittive sull’aborto, confrontando tali numeri con le tendenze generali del suicidio e con i tassi in luoghi privi di tali restrizioni.
“In confronto, le donne che hanno subito lo shock di questo tipo di legislazione restrittiva hanno avuto un aumento significativo del tasso di suicidi”, ha spiegato Zandberg.
Successivamente, i ricercatori hanno esaminato se la scoperta fosse specifica per le donne in età riproduttiva o se potesse essere osservata in altre popolazioni. A titolo di confronto, hanno eseguito la stessa analisi per tutte le donne di età compresa tra 45 e 64 anni tra il 1974 e il 2016. Non hanno riscontrato alcun effetto. Infine, hanno esaminato un’altra causa comune di morte, i tassi di mortalità dei veicoli a motore, e non hanno riscontrato alcun effetto. Il controllo di potenziali fattori di confusione come l’economia e il clima politico non ha cambiato i risultati.
Sebbene i risultati non dimostrino che limitare l’accesso all’aborto abbia causato un aumento dei tassi di suicidio , i ricercatori affermano che l’approccio analitico è uno dei metodi più rigorosi per consentire l’inferenza causale. “Questa associazione è solida e non ha nulla a che fare con la politica”, ha specificato Barzilay. “È tutto supportato dai dati.”
Esistono limitazioni a queste conclusioni, incluso il fatto che i ricercatori non hanno avuto accesso ai dati sulle esperienze o sulla salute mentale delle singole donne. In altre parole, “stiamo esaminando la connessione tra i dati sommari sulle cause di morte a livello statale e la politica e la politica per molti decenni. Tuttavia, ogni morte rappresenta un momento individuale di tragedia”, afferma Waller. “Quindi, c’è chiaramente molto di più che dobbiamo capire su cosa significano questi risultati per il rischio di suicidio individuale”.
Nel quadro generale, il team Penn-CHOP afferma che è importante avere un’idea delle tendenze attuali per pianificare scenari futuri in cui le restrizioni parziali si trasformano in restrizioni a tutti gli effetti o addirittura nella criminalizzazione dell’aborto. “Qualunque sia la tua opinione su tutto questo, è su tutte le notizie. È ovunque”, dice Waller. “Le donne che interiorizzano le storie che ascoltano sono quelle che queste restrizioni influenzeranno maggiormente”.
Le limitazioni all’aborto negli Stati Uniti sono state spunto di riflessione sulla possibilità che lo stesso accada in Italia. Alice Merlo, attivista e testimonial della campagna nazionale promossa dall’Uaar (Unione degli atei e degli agnostici razionalisti) in favore della RU486, la pillola abortiva che evita il ricovero ospedaliero e l’operazione chirurgica, ha dichiarato: “La situazione è critica ed emergenziale, ma non del tutto stabile. Stiamo vedendo di giorno in giorno quanto stia peggiorando. Va ricordato cosa sta succedendo, perché non tutti lo sanno o lo comprendono in pieno.
Negli Stati Uniti c’è un ordinamento diverso rispetto al nostro, ci sono sentenze che creano precedenti giuridici, ed è il caso della Roe vs Wade, che dal 1973 garantiva il diritto all’aborto a livello federale, unitario. La sentenza lo tutelava almeno sino alla 24esima settimana: senza questa sentenza il diritto all’aborto in alcuni Stati non c’è più, in altri si sta valutano se toglierlo o meno, in altri sono state emanate leggi che limitano moltissimo l’accesso.
Questo andrà a discriminare le fasce di popolazione con meno potenzialità economiche, perché non tutte le persone avranno gli strumenti per poter contattare le associazioni che possono supportarle ed essere seguite adeguatamente, né avranno i mezzi per raggiungere gli Stati in cui ancora l’aborto è consentito.
Il che PRODURRÀ RISCHI CONCRETI, DI VITA, PER MILIONI DI DONNE CHE NON RINUNCERANNO ALL’ABORTO MA RICORRERANNO A METODI CLANDESTINI
Tanto per fare un esempio, nella cattolicissima e vicinissima Malta è illegale, e la situazione in Polonia e Ungheria è un assoluto disastro. Ciò che è preoccupante per l’Europa è che da anni c’è una parte di movimento politico che sta cercando di creare e consolidare una sorta di “Stati Uniti d’Europa”: il fatto che in America una sentenza così importante sull’autodeterminazione dei corpi sia stata ribaltata dà forza all’estrema destra per chiedere che venga seguita la stessa strada, ovvero che l’Europa come sistema unitario perda ulteriore potere politico, e che in tema di aborto la discrezionalità di scelta venga lasciata ai singoli Stati.
Oggi in realtà è così, ma ogni anno l’Unione Europea vigila affinché questo diritto venga garantito. Si potrebbe arrivare quindi al punto di chiedere che non vi sia più ingerenza, che l’Unione Europea non intervenga più, lasciando agli Stati, e ai relativi detentori del potere politico, la facoltà di adottare le leggi che preferiscono sul tema dell’accesso all’aborto. E questo non accadrà ora, nel pieno della bufera sollevata dagli Stati Uniti, ma quando saremo più distratti.
La 194 è una legge che tutela il valore sociale della maternità. È proprio impostata così, alla prima riga del primo articolo già si sta imponendo la gabbia della “incubatrice”, il che significa che oggi dobbiamo ancora giustificare i nostri aborti con motivi che siano considerati leciti: rischi per la salute, in primis.
Altra questione da sottolineare:
“IO SONO IMPEGNATA NELL’ACCOMPAGNAMENTO ALL’ABORTO FARMACOLOGICO, PERCHÉ HO FATTO ESPERIENZA CON QUELLO, E DICO SUBITO CHE AL SUD E NELLE ISOLE È PRATICAMENTE IMPOSSIBILE AVERE ACCESSO ALL’ABORTO FARMACOLOGICO
Questo perché è a discrezione delle singole Regioni prendere decisioni in ambito sanitario, e la 194 non è mai stata toccata e non si parla esplicitamente dell’aborto farmacologico, diventato legge nel 2009. Ogni struttura sanitaria fa per sé, e molte regioni del Sud non ordinano proprio il farmaco, nonostante l’operazione chirurgica sia più pericolosa e anche più costosa.
Il problema vero è che la farmacologica, oltre a essere più sicura e meno invasiva, dà il controllo dell’aborto a un’altra persona: sono io che gestisco il mio aborto in totale consapevolezza. Sono tantissimi i ginecologi per lo più uomini che disincentivano la terapia farmacologica, e intorno alla RU486 si fa moltissimo terrorismo psicologico, eppure ha un tasso di mortalità dello 0,001%. Se chi dà informazioni le dà in questo modo, chi si rivolge a un consultorio o a una struttura per un aborto vivrà l’esperienza con paura, con ansia e in modo fisicamente doloroso.
DI ABORTO NON SI PARLA, NO. E CERTAMENTE NON SE NE PARLA COME DI UN’ESPERIENZA CHE SI PUÒ VIVERE IN MODO SERENO, LA NOSTRA SOCIETÀ IMPONE IL SENSO DI COLPA E IL DOLORE.
Lo stiamo vedendo anche ora che sono venute alla luce un po’ più di testimonianze, una delle cose più ricorrenti che si leggono è “mi sono sentita in colpa per non essermi sentita in colpa. Mi hanno sempre parlato dell’aborto come di una cosa di cui ti devi sentire in colpa”. La donna si sente in dovere di giustificarsi, e le persone comunque chiedono sempre la motivazione di questa scelta.
Inoltre si continua a ostacolare e a non ritenere necessaria l’istituzione dello psicologo di base, molto importante in ogni percorso della propria vita, ma ci sono donne e persone con utero che sono state costrette ad andare dallo psicologo per dimostrare di avere validi motivi per abortire: poi lo psicologo sparisce, ma le sedute prima vanno fatte.
È capitato in Lazio, Sicilia, Veneto e Campania, Lombardia, dipende dal consultorio cui ti rivolgi, se incappi in un consultorio in cui c’è ausilio di associazioni anti abortiste è altamente probabile che accada. E attenzione: di recente la leader di Fdl, Giorgia Meloni, ha fatto dichiarazioni che possono all’apparenza sembrare pro 194, ma che in realtà vanno in un’altra direzione.
Ha detto che andrebbe maggiormente “applicata nei primi articoli”. Nei primi articoli si legge, tra le altre cose, che “i consultori possono avvalersi, per i fini previsti dalla legge, della collaborazione volontaria di idonee formazioni sociali di base e di associazioni del volontariato, che possono anche aiutare la maternità difficile dopo la nascita”.
Si apre insomma ulteriormente la strada alle associazioni pro-vita all’interno dei consultori, associazioni che esercitano pressioni sulle donne per convincerle a non abortire.
i quotidiani italiani hanno riportato le parole del Papa, che in un’intervista a un giornale francese ha ribadito, rispetto alla sentenza americana, che per lui l’aborto è omicidio, che non si può uccidere e che chi aiuta le donne a farlo è un sicario. L’ingerenza del Vaticano è enorme, eppure nessun rappresentante delle istituzioni prende posizione su queste parole, sul diritto all’autodeterminazione dei corpi, che si tratti di aborto o riconoscimento del proprio orientamento sessuale. Non è mai una priorità. È stato dato ampio spazio alle parole del Papa, ma non a eventuali repliche, se mai ci sono state.
SONO ANNI CHE IN TUTTI I PAESI PRINCIPALMENTE OCCIDENTALI SI FANNO PASSI INDIETRO NELLA TUTELA DEI DIRITTI, E ACCADE NEI PAESI CHE DAVANO PER SCONTATI QUESTI DIRITTI.
Non si sta cercando di tornare indietro, ma di evitare che vengano fatti passi avanti, e verso l’aborto c’è certamente un accanimento. Se c’è qualcosa che non tollero è quando viene fatta la classifica degli aborti, quelli di serie A e di serie B. Si parla di casi limite per dire “almeno in questi casi sì, si deve garantire”. Invece deve bastarci che le persone vogliano esercitare un loro diritto.
In questo modo si fa passare il messaggio che le dinamiche di un concepimento possano rendere più o meno legittimo l’accesso a un diritto. Un diritto nei confronti di un atto legale e depenalizzato da 44 anni, e dopo 44 anni mi aspetto che chi si occupa del tema ne sappia parlare correttamente.
Una cosa mi sento di dirla, e cioè di smettere di imporre un modo di sentirsi alle donne che decidono di abortire. Ogni modo di sentirsi rispetto a un aborto è valido, l’importante è che il dolore non venga mai imposto e che l’esperienza della persona non venga indotta né silenziata, è tutto valido, e tutto deve essere rispettato, senza ingerenze”.