Nel linguaggio comune si dice spesso che “ci si abitua a bere” o ancora “guarda che l’alcol è solo questione di abitudine” e questa espressione suggerisce che la tolleranza all’alcol sia frutto di una progressiva esposizione volontaria, come se il corpo diventasse più forte nel tempo.

Le cose stanno davvero così?
La realtà biologica racconta una storia molto diversa, regolata da geni, enzimi e meccanismi neurochimici profondi.
Genetica e metabolismo dell’alcol
Il corpo umano metabolizza l’alcol attraverso due enzimi fondamentali:
- Alcol deidrogenasi (ADH): converte l’etanolo in acetaldeide, una sostanza tossica.
- Aldeide deidrogenasi (ALDH): trasforma l’acetaldeide in acido acetico, meno nocivo e più facilmente eliminabile.
Esistono varianti genetiche dei geni che codificano per questi enzimi:
- Il gene ADH1B ha una variante nota come ADH1B(2), che accelera la conversione dell’etanolo in acetaldeide e ciò è comune in alcune popolazioni asiatiche.
- Il gene ALDH2 ha una variante chiamata ALDH2(2), che riduce la capacità di convertire l’acetaldeide in acido acetico, causando accumulo della sostanza tossica e sintomi come arrossamento del viso, nausea e tachicardia (la cosiddetta “reazione da flushing“).
Chi possiede queste varianti ha una risposta fisiologica molto diversa all’alcol rispetto a chi non le ha e in alcuni casi, può non sviluppare alcuna “tolleranza”, proprio perché il corpo segnala subito il danno.

Tolleranza: adattamento o danno?
L’idea che la tolleranza all’alcol sia una forma di adattamento positivo è fuorviante, perché in realtà, una maggiore tolleranza è spesso il risultato di un sovraccarico adattativo:
- Il fegato può aumentare la produzione di enzimi come CYP2E1, che aiutano a smaltire più velocemente l’alcol.
- Il cervello può desensibilizzare i recettori GABA e NMDA, alterando l’equilibrio neurochimico per compensare gli effetti dell’etanolo.
Queste modifiche non sono sintomo di forza, ma di uno stress cronico a livello metabolico e neurologico. In altre parole, il corpo non si sta abituando: sta subendo un danno e lo maschera temporaneamente.

Una falsa narrativa sociale
Il mito dell'”abitudine” ha una forte componente culturale, tant’è vero che in molte società, come nell’Europa dell’Est (ma anche qui in Italia in realtà), “reggere l’alcol” è visto come un segno di virilità, resistenza o carattere, ma questo mito ignora completamente le basi biologiche della tolleranza e minimizza i rischi a lungo termine:
- Aumentata esposizione a tossine come l’acetaldeide.
- Maggiore rischio di dipendenza.
- Danni epatici, cardiovascolari e neurologici.
Esiste allora una soglia sicura per il consumo di alcol?
Senza fare tanti giri di parole: no!
Le linee guida dell’Organizzazione Mondiale della Sanità indicano che non esiste una soglia di consumo di alcol completamente sicura, quindi anche basse quantità possono aumentare il rischio di sviluppare alcune malattie, tra cui diversi tipi di cancro.
Tuttavia, alcuni paesi forniscono raccomandazioni per limitare i danni, come un massimo di:
- 10 grammi di alcol puro al giorno per le donne (circa un bicchiere di vino);
- 20 grammi per gli uomini (circa una birra da 500 ml).
Ma è importante sottolineare che queste soglie non rappresentano una “zona sicura”, bensì un limite oltre il quale i rischi aumentano sensibilmente e per chi ha varianti genetiche sfavorevoli (come ALDH22), anche quantità minime possono risultare dannose.
In sintesi: la “soglia sicura” è un concetto relativo, e per molte persone la scelta migliore resta l’astensione o un consumo estremamente occasionale e consapevole.
Conclusione
L’alcol non è una sostanza con cui ci si “allena” come con lo sport e la tolleranza non è un traguardo, ma un segnale d’allarme.
Comprendere il ruolo di geni come ADH1B e ALDH2, e di enzimi come CYP2E1, ci permette di superare una narrazione pericolosa e fuorviante. In un mondo che esalta la capacità di sopportare, sapere dire “no” all’alcol è spesso il vero atto di forza.