Un verme preistorico che ha vissuto nell’era glaciale è tornato a vivere dopo essere stato congelato nel permafrost siberiano per ben 46.000 anni, si tratta di una nuova specie di nematodo, ovvero un piccolo animale che può entrare in uno stato di ibernazione quando le condizioni sono avverse.
Il verme preistorico, chiamato Panagrolaimus kolymaensis, è stato scoperto a 40 metri di profondità nel suolo ghiacciato sulle rive del fiume Kolyma, una zona ricca di reperti antichi come il DNA, i virus e gli orsi; l’età del campione è stata determinata con l’analisi al radiocarbonio, che ha rivelato che il verme preistorico si era addormentato nel tardo Pleistocene, tra 45.839 e 47.769 anni fa.
I ricercatori hanno rianimato il verme in laboratorio e lo hanno studiato per capire come fosse in grado di sopravvivere per così tanto tempo in uno stato di criptobiosi, in cui tutti i processi metabolici si fermano, e per venirne a capo, hanno confrontato il suo genoma con quello di un nematodo moderno, il Caenorhabditis elegans, e hanno individuato i geni responsabili della resistenza al freddo e alla disidratazione.
Lo studio, pubblicato sulla rivista PLOS Genetics, apre nuove prospettive sulla comprensione dei meccanismi della criptobiosi e delle sue possibili applicazioni nella conservazione a lungo termine di cellule e tessuti, inoltre solleva la domanda se ci sia un limite alla durata della criptobiosi e se altri organismi possano avere questa capacità.
“Il nostro lavoro dimostra che i nematodi sono organismi estremamente resistenti che possono sopravvivere a condizioni ambientali estreme per periodi di tempo eccezionalmente lunghi. Siamo interessati a scoprire quali altri segreti nascondono questi vermi antichi.”
ha dichiarato il dottor Stas Malavin, uno degli autori dello studio.
Ad oggi, abbiamo però altri esempi di vita antica risvegliata dal permafrost, come questo verme preistorico? No, il nematodo appena scoperto infatti non è l’unico esempio di vita antica che è stata risvegliata dal permafrost siberiano, negli ultimi anni infatti sono stati riportati altri casi di organismi multicellulari che sono stati rianimati dopo migliaia o milioni di anni.
Nel 2018, lo stesso team di Malavin ha annunciato di aver resuscitato due specie di nematodi dopo un periodo di 42.000 anni di criptobiosi (o almeno, pensano che questo sia il periodo), inoltre questi altri due vermi erano stati trovati in due siti diversi: uno vicino al fiume Alazeya e l’altro vicino al fiume Kolyma.
Nel 2019, un altro gruppo di ricercatori ha riportato di aver fatto rivivere una pianta chiamata Silene stenophylla da semi conservati nel permafrost per circa 32.000 anni, con la pianta che ha in seguito prodotto fiori e semi fertili dopo essere stata coltivata in laboratorio.
Nel 2021, ancora un altro team ha annunciato di aver rianimato un piccolo animale chiamato rotifero dopo 24.000 anni di criptobiosi. Il rotifero è stato trovato nello stesso sito del fiume Alazeya dove erano stati scoperti i nematodi del 2018 e si tratta della prima volta che un rotifero viene osservato a sopravvivere per così tanto tempo nel ghiaccio.
Oltre agli organismi multicellulari, anche i batteri e i virus sono stati ritrovati vivi nel permafrost, e qui addirittura abbiamo studi del 2000, dove veniva riportata la crescita di batteri da una spora conservata nell’ambra per un periodo compreso tra 25 e 40 milioni di anni, mentre invece nel 2014, un altro studio ha descritto la ricostruzione di un virus gigante chiamato Pithovirus sibericum da un campione di permafrost vecchio di 30.000 anni.
Le implicazioni del risveglio della vita antica come quella di questo verme preistorico
Il risveglio della vita antica dal permafrost ha diverse implicazioni scientifiche e sociali: da un lato, offre l’opportunità di studiare la biodiversità e l’evoluzione di organismi che altrimenti sarebbero scomparsi, da un altro lato, pone il problema dei potenziali rischi per la salute e l’ambiente che potrebbero derivare dal rilascio di agenti patogeni o specie invasive.
Il permafrost siberiano sta subendo un rapido scioglimento a causa del riscaldamento globale, che potrebbe portare alla liberazione di organismi antichi che non sono più adattati alle condizioni attuali, questo potrebbe avere effetti imprevedibili sulla flora e sulla fauna locali, così come sugli esseri umani che vivono in queste aree.
Inoltre, il permafrost potrebbe contenere virus o batteri che sono stati inattivi per millenni, ma che potrebbero ancora essere infettivi o resistenti agli antibiotici. Questo potrebbe rappresentare una minaccia per la salute pubblica, soprattutto se si considera che le popolazioni umane sono diventate più vulnerabili a causa della perdita di diversità genetica e immunologica.
Per prevenire o mitigare questi rischi, è necessario monitorare attentamente il permafrost e le sue conseguenze sul clima e sulla biosfera, ed è anche importante sviluppare strategie di adattamento e mitigazione che tengano conto delle specificità delle regioni artiche e delle loro popolazioni.
Il genoma del verme preistorico rivela i meccanismi della criptobiosi
Per approfondire la conoscenza dei meccanismi molecolari alla base della criptobiosi, i ricercatori hanno sequenziato il genoma del verme presitorico e, come detto all’inizio di questo articolo, lo hanno confrontato con quello del nematodo modello Caenorhabditis elegans; così facendo gli studiosi hanno scoperto che il verme preistorico e il verme dei nostri giorni condividono alcuni geni coinvolti nella resistenza allo stress ambientale, come il freddo, la disidratazione e l’ossidazione.
In particolare, hanno identificato una famiglia di geni chiamati LEA (late embryogenesis abundant), che codificano per proteine che proteggono le membrane cellulari e le macromolecole dal danno causato dalla disidratazione. Questi geni sono espressi sia nel verme antico che nel C. elegans in uno stato di criptobiosi, ma non in quello attivo.
Gli scienziati, nel corso dello studio, hanno anche trovato una famiglia di geni chiamati HSP (heat shock protein), che codificano per proteine che aiutano il ripiegamento delle altre proteine e prevengono la loro aggregazione quando la temperatura cambia. Questi geni sono espressi sia nel verme preistorico che nel C. elegans in uno stato di criptobiosi, ma anche in quello attivo, suggerendo che hanno una funzione più generale nella risposta allo stress.
Infine, hanno rilevato una famiglia di geni chiamati GST (glutathione S-transferase), che codificano per enzimi coinvolti nella detossificazione delle sostanze chimiche nocive e nella protezione dalle specie reattive dell’ossigeno. Questi geni sono espressi solo nel verme preistorico in uno stato di criptobiosi, ma non in quello attivo o nel C. elegans, indicando che potrebbero essere specifici per la specie o per il tipo di stress.
I ricercatori hanno anche esaminato le differenze strutturali tra i due genomi, notando che il verme preistorico ha un genoma più piccolo (circa 60 Mb) e meno ripetitivo (circa 10%) rispetto al C. elegans (circa 100 Mb e 16%), inoltre hanno ipotizzato che questo potrebbe essere dovuto a una maggiore stabilità genomica del verme preistorico, che riduce il tasso di mutazioni e ricombinazioni durante la criptobiosi, ciò si traduce in un possibile vantaggio per la sopravvivenza a lungo termine in condizioni estreme.
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