La tiroidite di Hashimoto, nota anche come tiroidite cronica autoimmune, è una condizione in cui il sistema immunitario del corpo attacca erroneamente le cellule della tiroide. Questo attacco autoimmune provoca un’infiammazione cronica della ghiandola tiroidea, che nel tempo può danneggiarla e comprometterne la capacità di produrre una quantità sufficiente di ormoni tiroidei. La conseguenza più comune di questa condizione è l’ipotiroidismo, uno stato in cui la tiroide non produce abbastanza ormoni. Infatti, la tiroidite di Hashimoto rappresenta la causa più frequente di ipotiroidismo nei paesi sviluppati.

Tiroidite di Hashimoto: più diffusa nelle donne
È una patologia più diffusa nelle donne rispetto agli uomini e presenta una predisposizione genetica, risultando più comune in individui con una storia familiare di malattie autoimmuni. Inizialmente, la tiroidite di Hashimoto può non manifestare sintomi evidenti. Tuttavia, con il progredire della disfunzione tiroidea, possono comparire i sintomi tipici dell’ipotiroidismo, come stanchezza, aumento di peso, sensibilità al freddo, stipsi, secchezza cutanea, depressione e difficoltà di concentrazione. In alcune fasi iniziali, si può osservare un transitorio periodo di ipertiroidismo, denominato “hashitossicosi”, dovuto al rilascio di ormoni tiroidei dalle cellule tiroidee danneggiate.
La diagnosi di tiroidite di Hashimoto si basa sull’esame fisico, sull’anamnesi del paziente e su analisi del sangue che misurano i livelli degli ormoni tiroidei (TSH, FT4, FT3) e la presenza di specifici autoanticorpi, come gli anticorpi anti-TPO e anti-tireoglobulina. In conclusione, la tiroidite di Hashimoto è una malattia autoimmune cronica che colpisce la tiroide e spesso conduce a una ridotta funzionalità della ghiandola (ipotiroidismo), richiedendo generalmente una gestione a lungo termine.
La tiroidite di Hashimoto può rimanere silente e senza sintomi per molti anni, specialmente nelle sue fasi iniziali. La velocità con cui progredisce verso l’ipotiroidismo è molto variabile da persona a persona: alcuni individui possono conservare una funzione tiroidea normale per tutta la loro esistenza, mentre altri sviluppano una carenza ormonale in un periodo di tempo relativamente breve. L’ingrossamento della tiroide, noto come gozzo, è un riscontro frequente ma non costante; può presentarsi in modo uniforme o con noduli e le sue dimensioni possono fluttuare nel tempo.
In alcune circostanze, la tiroide può anche ridursi di volume, un fenomeno chiamato atrofia. Nelle prime fasi della malattia, a causa del danno alle cellule tiroidee, può verificarsi un temporaneo rilascio eccessivo di ormoni tiroidei, una condizione definita tireotossicosi o “Hashitossicosi”, che si manifesta con sintomi di ipertiroidismo. Questa fase è solitamente di breve durata e precede l’instaurarsi dell’ipotiroidismo.
Le 5 aree di ricerca più promettenti
Terapie Immunomodulanti
Nell’ambito delle terapie immunomodulanti per la tiroidite di Hashimoto, si stanno studiando alcuni farmaci biologici, già impiegati per altre malattie autoimmuni come Rituximab, Etanercept e Tocilizumab, per la loro possibile capacità di attenuare la risposta immunitaria anomala che caratterizza questa condizione. Un altro farmaco oggetto di ricerca è la Metformina, comunemente utilizzata per il diabete di tipo 2, che in studi preliminari ha evidenziato proprietà immunomodulanti e potrebbe avere effetti benefici nella tiroidite di Hashimoto attraverso la riduzione degli autoanticorpi e dell’infiammazione.
Le terapie basate sull’impiego di cellule staminali mesenchimali (MSC) rappresentano un’ulteriore area di interesse; queste cellule possiedono proprietà immunomodulanti e rigenerative, e la ricerca sta valutando il loro potenziale nel diminuire l’infiammazione a livello tiroideo e nel modulare la risposta autoimmune. Sebbene alcuni studi condotti su modelli animali abbiano mostrato risultati incoraggianti, è necessario condurre ulteriori studi clinici sull’uomo per confermarne l’efficacia.
I farmaci biologici rappresentano una classe di terapie mirate che intervengono su specifiche molecole o cellule del sistema immunitario coinvolte nell’autoimmunità. Nel contesto della tiroidite di Hashimoto, farmaci come il Rituximab, un anticorpo monoclonale che agisce sulle cellule B produttrici di autoanticorpi, sono stati studiati per la loro capacità di ridurre la produzione di questi anticorpi e, di conseguenza, l’attacco alla tiroide. I i risultati finora ottenuti tuttavia sono stati variabili, e l’efficacia clinica di tali farmaci nel migliorare la funzione tiroidea o alleviare i sintomi non è ancora chiaramente dimostrata.
Altri farmaci biologici, come Etanercept e Tocilizumab, che bloccano citochine pro-infiammatorie come il TNF-α e l’IL-6, sono anch’essi oggetto di studio per il loro potenziale nel modulare l’infiammazione tiroidea, ma anche in questo caso sono necessarie ulteriori ricerche per confermarne l’utilità clinica specifica per la tiroidite di Hashimoto.
Un altro approccio interessante è rappresentato dalla Metformina, un farmaco ampiamente utilizzato nel trattamento del diabete di tipo 2. Oltre ai suoi effetti sulla regolazione del glucosio, la Metformina ha dimostrato di possedere proprietà immunomodulanti, influenzando diverse vie del sistema immunitario.
Studi preliminari suggeriscono che potrebbe contribuire a ridurre i livelli degli autoanticorpi tiroidei e a modulare l’infiammazione nella tiroide. Sebbene questi risultati siano promettenti, è fondamentale condurre studi clinici più ampi e rigorosi per confermare questi effetti e valutare il reale impatto clinico della Metformina nei pazienti affetti da tiroidite di Hashimoto. La sua buona tollerabilità e il profilo di sicurezza consolidato la rendono un candidato interessante per ulteriori indagini.
Le terapie a base di cellule staminali mesenchimali (MSC) rappresentano un campo di ricerca innovativo. Le MSC sono cellule con la capacità di modulare la risposta immunitaria e promuovere la rigenerazione dei tessuti danneggiati. Nella tiroidite di Hashimoto, l’obiettivo è sfruttare queste proprietà per ridurre l’infiammazione cronica della tiroide, modulare la risposta autoimmune e possibilmente riparare il tessuto tiroideo compromesso.
Studi preclinici su modelli animali hanno fornito risultati incoraggianti, e alcuni piccoli studi clinici sull’uomo hanno suggerito una potenziale sicurezza ed efficacia delle MSC nel ridurre gli autoanticorpi e migliorare alcuni parametri clinici. Tuttavia, la ricerca in questo settore è ancora in una fase iniziale, e sono necessari studi clinici più ampi e a lungo termine per definire protocolli di trattamento efficaci e sicuri e per comprendere appieno il potenziale terapeutico delle MSC nella tiroidite di Hashimoto. Le modalità di somministrazione e il tipo di MSC impiegato sono aspetti cruciali che richiedono ulteriori approfondimenti.
Approcci nutrizionali e supplementazione
Nell’ambito degli approcci nutrizionali e della supplementazione per la tiroidite di Hashimoto, alcune ricerche suggeriscono che l’integrazione di selenio potrebbe avere un effetto benefico, in particolare nella riduzione degli autoanticorpi tiroidei, specialmente in pazienti con forme lievi o moderate della malattia. Un altro elemento nutrizionale sotto osservazione è la vitamina D. Bassi livelli di questa vitamina sono stati correlati a un maggiore rischio di sviluppare malattie autoimmuni, e per questo motivo la supplementazione di vitamina D è oggetto di studio per il suo potenziale ruolo nella modulazione della risposta immunitaria nell’ambito della tiroidite di Hashimoto.
L’importanza dell’equilibrio della flora intestinale, o microbioma, è sempre più riconosciuta nel contesto delle malattie autoimmuni. Di conseguenza, l’utilizzo di probiotici e prebiotici, mirato a migliorare la salute dell’intestino, rappresenta un’area di ricerca attiva per la gestione della tiroidite di Hashimoto.
Alcune persone affette da tiroidite di Hashimoto riferiscono un miglioramento dei propri sintomi seguendo diete specifiche, come quelle anti-infiammatorie o prive di glutine. È tuttavia importante sottolineare che la ricerca scientifica in questo ambito è ancora limitata e i risultati ottenuti finora non sono sempre concordanti, rendendo necessarie ulteriori indagini per comprendere appieno il ruolo dell’alimentazione nella gestione di questa condizione.
Terapie ormonali alternative
Nell’ambito delle terapie ormonali alternative per la gestione dell’ipotiroidismo secondario alla tiroidite di Hashimoto, un approccio che suscita un interesse crescente è la terapia combinata con levotiroxina (LT4) e liotironina (T3). La prassi clinica standard prevede l’utilizzo esclusivo di levotiroxina, un ormone sintetico che mima l’ormone tiroideo T4, il quale viene poi convertito nell’organismo nella sua forma attiva, il T3.
Una parte significativa di pazienti affetti da ipotiroidismo, pur raggiungendo livelli di TSH (ormone tireostimolante) considerati nella norma attraverso la sola terapia con LT4, continua a manifestare una persistenza di sintomi debilitanti quali affaticamento cronico, difficoltà cognitive, alterazioni dell’umore e problemi di termoregolazione.
Questa situazione ha spinto la ricerca a esplorare la potenziale utilità di una terapia che integri direttamente anche la liotironina (T3) sintetica. L’ipotesi sottostante è che in alcuni individui la conversione periferica di T4 in T3 possa essere inefficiente o insufficiente a livello tissutale, e una somministrazione diretta di T3 potrebbe quindi contribuire a ristabilire un adeguato livello di ormone attivo nei tessuti bersaglio, alleviando così la sintomatologia residua.
Gli studi clinici condotti finora su questa terapia combinata hanno prodotto risultati eterogenei, con alcuni pazienti che riportano un miglioramento significativo della qualità della vita e una riduzione dei sintomi, mentre altri non mostrano benefici evidenti o sperimentano effetti collaterali legati alla maggiore potenza del T3. La decisione di intraprendere una terapia combinata LT4/T3 è complessa e richiede una valutazione individuale molto accurata da parte dell’endocrinologo, considerando attentamente la storia clinica del paziente, la persistenza dei sintomi nonostante un TSH normalizzato con LT4, e i potenziali rischi e benefici di questa strategia terapeutica alternativa.
Un’altra opzione terapeutica ormonale alternativa, sebbene meno frequentemente utilizzata nella pratica clinica contemporanea, è rappresentata dall’estratto tiroideo essiccato (DTE), un preparato di origine animale (solitamente suina) che contiene naturalmente sia l’ormone T4 che il T3, oltre ad altri ormoni tiroidei in tracce. Alcuni pazienti con tiroidite di Hashimoto e ipotiroidismo riferiscono una preferenza per questo tipo di preparazione, spesso percepita come più “naturale” o in grado di alleviare meglio i loro sintomi rispetto alla sola levotiroxina sintetica.
Un aspetto critico dell’estratto tiroideo essiccato risiede nella sua potenza ormonale, che può essere meno standardizzata e più variabile rispetto alla levotiroxina sintetica, la cui produzione è rigorosamente controllata per garantire un dosaggio preciso. Questa variabilità può rendere più difficile il raggiungimento e il mantenimento di livelli ormonali tiroidei stabili e ottimali nel tempo, con potenziali fluttuazioni tra ipo- e ipertiroidismo. Inoltre, la composizione precisa degli estratti tiroidei essiccati può variare tra i diversi produttori e lotti, rendendo la titolazione della dose più complessa.
Nonostante le preferenze espresse da alcuni pazienti, le principali linee guida endocrinologiche raccomandano generalmente la levotiroxina sintetica come terapia di prima linea per l’ipotiroidismo, grazie alla sua purezza, alla sua potenza standardizzata e alla facilità di titolazione. L’uso dell’estratto tiroideo essiccato può essere considerato in casi selezionati, sotto stretto controllo medico e dopo un’attenta valutazione dei potenziali benefici e rischi individuali, soprattutto in pazienti che non hanno risposto adeguatamente alla terapia con sola levotiroxina e che sono consapevoli delle potenziali limitazioni di questo preparato.
Trapianto di cellule staminali
Il trapianto di cellule staminali emerge come un’area di ricerca potenzialmente rivoluzionaria nel panorama delle terapie future per la tiroidite di Hashimoto, focalizzandosi su un approccio radicalmente diverso rispetto alla gestione sintomatica o alla modulazione parziale della risposta immunitaria.
L’idea fondamentale alla base di questa strategia terapeutica è quella di intervenire direttamente sul sistema immunitario disfunzionale, responsabile dell’attacco autoimmune alla tiroide, attraverso la sostituzione delle cellule immunitarie “errate” o iperattive con una popolazione di cellule immunitarie nuove e sane, capaci di ristabilire uno stato di tolleranza immunologica nei confronti della tiroide e, idealmente, di arrestare o invertire il processo autoimmune in corso.
Questo approccio terapeutico complesso e ancora in fase di sviluppo per la tiroidite di Hashimoto si basa sul principio dell’immunomodulazione profonda e del ripristino dell’omeostasi immunitaria. Diverse tipologie di trapianto di cellule staminali sono oggetto di studio nel contesto delle malattie autoimmuni in generale, e alcune di queste potrebbero trovare applicazione anche nella tiroidite di Hashimoto. Tra queste, il trapianto autologo di cellule staminali ematopoietiche (auto-HSCT) è una delle strategie più studiate.
In questa procedura, le cellule staminali ematopoietiche del paziente vengono prelevate, processate e conservate. Successivamente, il paziente viene sottoposto a un regime di condizionamento intensivo, che include chemioterapia e/o radioterapia, con l’obiettivo di eliminare le cellule immunitarie autoreattive. Infine, le cellule staminali precedentemente raccolte vengono reinfuse nel paziente, con la speranza che si differenzino in un nuovo sistema immunitario “tollerante” nei confronti degli autoantigeni tiroidei.
Il razionale scientifico alla base dell’auto-HSCT risiede nella capacità del nuovo sistema immunitario che si rigenera dalle cellule staminali trapiantate di “resettare” la memoria immunologica autoreattiva e di ristabilire meccanismi di tolleranza immunitaria. Sebbene questa procedura abbia dimostrato una certa efficacia nel trattamento di altre malattie autoimmuni gravi, come la sclerosi multipla e il lupus eritematoso sistemico, la sua applicazione specifica nella tiroidite di Hashimoto presenta sfide e necessita di ulteriori approfondimenti.
Uno degli aspetti cruciali da considerare è che la tiroidite di Hashimoto è spesso una malattia a progressione lenta e con manifestazioni cliniche variabili, e la severità degli effetti collaterali associati a un trapianto di cellule staminali (che può includere immunosoppressione profonda e aumentato rischio di infezioni) deve essere attentamente bilanciata con i potenziali benefici a lungo termine.
Un’altra area di ricerca promettente riguarda il trapianto di cellule staminali mesenchimali (MSC), menzionato in precedenza nell’ambito delle terapie immunomodulanti. A differenza del trapianto di cellule staminali ematopoietiche, le MSC non mirano a sostituire completamente il sistema immunitario, ma piuttosto a modularlo attraverso la secrezione di fattori immunomodulatori e la promozione di un ambiente immunosoppressivo. Il trapianto di MSC potrebbe teoricamente contribuire a ridurre l’infiammazione nella tiroide e a modulare l’attività delle cellule immunitarie autoreattive, preservando al contempo una certa funzione immunitaria.
Anche in questo caso, la ricerca sull’applicazione specifica delle MSC nel trattamento della tiroidite di Hashimoto è ancora in una fase preliminare, e sono necessari studi clinici più ampi e controllati per valutarne l’efficacia e la sicurezza a lungo termine. Il trapianto di cellule staminali rappresenta un approccio terapeutico affascinante e potenzialmente curativo per la tiroidite di Hashimoto, con l’obiettivo di ristabilire la tolleranza immunologica attraverso la sostituzione o la modulazione delle cellule immunitarie disfunzionali.
È fondamentale riconoscere che questa area di ricerca è ancora in evoluzione e che l’applicazione clinica diffusa del trapianto di cellule staminali nel trattamento della tiroidite di Hashimoto richiederà ulteriori studi rigorosi per determinarne l’efficacia, la sicurezza e l’identificazione dei pazienti che potrebbero maggiormente beneficiare di tale approccio.
Medicina personalizzata
Il futuro della gestione della tiroidite di Hashimoto si prospetta sempre più orientato verso la medicina personalizzata, un approccio innovativo che mira a superare i limiti di un trattamento standardizzato e a offrire interventi terapeutici su misura per le caratteristiche uniche di ogni individuo.
La ricerca in questo campo sta attivamente esplorando la possibilità di identificare specifici profili genetici e caratteristiche del microbioma intestinale che potrebbero avere un ruolo cruciale nel predire la risposta di un paziente ai diversi trattamenti disponibili o in fase di sviluppo per la tiroidite di Hashimoto. L’obiettivo ultimo è quello di utilizzare queste informazioni individuali per stratificare i pazienti e selezionare l’approccio terapeutico più appropriato ed efficace per ciascuno di essi, massimizzando i benefici clinici e minimizzando i potenziali effetti collaterali.
L’analisi del profilo genetico di un individuo potrebbe rivelare la presenza di specifiche varianti geniche che influenzano la suscettibilità alla tiroidite di Hashimoto, la velocità di progressione della malattia, la risposta alla terapia sostitutiva con levotiroxina, o la probabilità di sviluppare altre comorbidità autoimmuni associate. Ad esempio, alcune varianti geniche potrebbero essere correlate a una maggiore o minore efficienza nella conversione periferica dell’ormone tiroideo T4 in T3, il che potrebbe influenzare la necessità o il beneficio di una terapia combinata LT4/T3.
Allo stesso modo, la predisposizione genetica potrebbe anche modulare la risposta individuale a potenziali terapie immunomodulanti, rendendo alcuni pazienti più o meno sensibili a determinati farmaci biologici o ad approcci basati sulla modulazione del sistema immunitario. L’identificazione di questi marcatori genetici potrebbe consentire ai medici di personalizzare la scelta del trattamento fin dalle prime fasi della malattia, ottimizzando la gestione a lungo termine.
Parallelamente all’indagine sul profilo genetico, la ricerca si sta concentrando sempre più sul ruolo del microbioma intestinale nella patogenesi e nella progressione delle malattie autoimmuni, inclusa la tiroidite di Hashimoto. Il microbioma, ovvero la complessa comunità di microrganismi che risiedono nel nostro intestino, svolge un ruolo cruciale nella modulazione del sistema immunitario. Alterazioni nella composizione e nella funzionalità del microbioma (disbiosi) sono state associate a un aumentato rischio di sviluppare malattie autoimmuni e potrebbero influenzare la risposta individuale ai trattamenti.
La caratterizzazione del profilo del microbioma di un paziente con tiroidite di Hashimoto potrebbe quindi fornire informazioni preziose sulla sua predisposizione alla malattia, sulla sua risposta infiammatoria e sulla sua potenziale reattività a interventi terapeutici mirati a modulare l’ecosistema intestinale, come l’utilizzo di probiotici, prebiotici o modifiche dietetiche specifiche.
In futuro, l’integrazione dell’analisi del microbioma nella pratica clinica potrebbe consentire di personalizzare ulteriormente gli approcci terapeutici, affiancando alla terapia ormonale o immunomodulante interventi specifici volti a ripristinare un equilibrio ottimale della flora intestinale e a modulare la risposta immunitaria a livello sistemico.
In sintesi, la medicina personalizzata rappresenta una frontiera promettente nella gestione della tiroidite di Hashimoto. Attraverso l’integrazione di informazioni dettagliate sul profilo genetico e sul microbioma di ciascun paziente, si auspica di poter sviluppare approcci terapeutici più mirati, predittivi ed efficaci, in grado di ottimizzare i risultati clinici e migliorare la qualità di vita delle persone affette da questa comune patologia autoimmune.
La ricerca futura in questo campo sarà cruciale per validare l’utilità clinica di questi marcatori individuali e per tradurre queste conoscenze in strategie terapeutiche personalizzate e implementabili nella pratica clinica quotidiana.
Per maggiori informazioni, visita il sito European Thyroid Association (ETA).