Un nuovo studio condotto dalla Mayo Clinic ha rivelato un meccanismo molecolare inedito che spiega come il consumo eccessivo di alcol contribuisca allo sviluppo della steatosi epatica, una condizione cronica che colpisce oltre un terzo della popolazione statunitense e che potrebbe presto interessare anche una larga fetta della popolazione europea, considerando gli stili di vita attuali.

Conosciuta anche con il nome più tecnico di steatosi epatica associata a disfunzione metabolica (Metabolic Dysfunction Associated Steatotic Liver Disease), questa malattia non solo può portare al diabete di tipo 2, ma è anche considerata un fattore di rischio per il tumore al fegato. La novità? Secondo i ricercatori, l’alcol altera direttamente un enzima fondamentale per il “riciclo” delle proteine danneggiate, creando un effetto a catena che porta all’accumulo eccessivo di grassi nelle cellule epatiche.
Nella steatosi epatica il fegato come “super-filtro” e il ruolo nascosto delle goccioline lipidiche
Il fegato è, a tutti gli effetti, il principale sistema di filtraggio del nostro corpo: ogni sostanza ingerita viene processata lì. Le cellule epatiche (epatociti) assorbono e immagazzinano i grassi sotto forma di goccioline lipidiche, piccole sfere che fungono da riserva energetica. Fin qui, tutto bene: è un sistema naturale. Ma se queste goccioline si accumulano oltre misura, si finisce dritti verso la steatosi epatica.

Ed è qui che entra in gioco un enzima chiamato VCP (valosin-containing protein), noto da tempo per il suo ruolo nel riciclo cellulare, ma finora mai collegato direttamente alla regolazione del grasso nel fegato.
L’alcol “disarma” l’enzima che protegge il fegato
Lo studio ha osservato che il VCP normalmente agisce da “guardiano”, tenendo sotto controllo una proteina chiamata HSD17β13, che si lega alle goccioline lipidiche. Quando presente in eccesso, questa proteina fa letteralmente “esplodere” i livelli di grasso nelle cellule del fegato.
Nei soggetti sani, il VCP si assicura che HSD17β13 venga rimossa e smaltita correttamente, trasportandola ai lisosomi, una sorta di “centro di smaltimento” interno alla cellula. Tuttavia, in presenza di alcol in eccesso, il VCP viene quasi completamente rimosso dalla superficie delle goccioline lipidiche, lasciando campo libero a HSD17β13 e all’accumulo di grassi.

“Siamo rimasti sorpresi nel vedere il VCP rimuovere selettivamente HSD17β13 dalla superficie delle gocce lipidiche. Quando questa proteina si accumula, contribuisce in modo diretto alla steatosi epatica”, spiega il dottor Mark McNiven, autore senior dello studio, pubblicato sul Journal of Cell Biology.
Una scoperta che apre la porta a nuove cure
Le immagini ottenute durante gli esperimenti mostrano in dettaglio il processo di riciclo cellulare in azione: il VCP collabora con una proteina “chaperone” per inviare HSD17β13 al lisosoma, dove viene smantellata. La ricercatrice Sandhya Sen, co-autrice dello studio, lo definisce un momento “sbalorditivo”.
Questa scoperta non solo svela un meccanismo chiave della steatosi epatica, ma indica HSD17β13 come possibile target terapeutico per trattamenti futuri. In altre parole, potremmo trovarci davanti a un passo avanti importante verso cure più efficaci o, ancora meglio, verso strategie di prevenzione personalizzate, soprattutto per chi ha una predisposizione genetica o consuma alcol regolarmente.

“Comprendere meglio la biologia delle goccioline lipidiche e il ruolo dell’epatocita ci aiuta a prevedere chi potrebbe essere più vulnerabile ai danni epatici causati dall’alcol, specialmente se questo sistema cellulare risulta compromesso”, conclude il dottor McNiven.
Parte dell’iniziativa Precure: prevedere per prevenire
Lo studio si inserisce nel contesto dell’iniziativa Precure della Mayo Clinic, un progetto ambizioso che mira a intercettare i segnali biologici prima che diventino malattia. L’idea è quella di anticipare i tempi, offrendo agli specialisti strumenti concreti per intervenire prima che la situazione degeneri.
Oltre la steatosi epatica esiste un limite “giusto” di alcol?
Una delle domande più comuni quando si parla di salute epatica è: “Ma quanto alcol posso bere senza rischi?” La risposta, alla luce delle ricerche più recenti (incluso lo studio della Mayo Clinic), è nessuno. O meglio: non esiste una soglia sicura universalmente valida.
Per anni si è diffusa l’idea (anche in ambito medico) che un consumo “moderato” di alcol (come un bicchiere di vino al giorno) potesse addirittura fare bene.
Ebbene le evidenze scientifiche degli ultimi anni smentiscono questa narrativa: anche piccole quantità possono influenzare negativamente processi cellulari delicatissimi, come la regolazione delle proteine o il metabolismo dei grassi, soprattutto se il sistema epatico è già sotto stress per fattori genetici, alimentari o ambientali.

Il problema non è solo quantitativo, ma anche cumulativo e sistemico: l’alcol interferisce con enzimi, ormoni e persino con il microbiota intestinale, compromettendo la capacità del fegato di autoregolarsi. Come dimostrato dalla ricerca, basta alterare un solo enzima chiave come il VCP per far scattare una reazione a catena che può condurre a danni irreversibili.
In questo senso, parlare di “limite sicuro” è fuorviante. La tolleranza individuale all’alcol varia moltissimo, ma nessuno è veramente immune. È un po’ come con le sigarette: che tu ne fumi una al giorno o dieci, l’effetto tossico inizia comunque. Solo che, nel caso dell’alcol, i danni sono spesso silenziosi e sottovalutati… almeno finché non è troppo tardi.