Un recente libro accusa Spotify di promuovere “artisti fantasma” per risparmiare sui pagamenti delle royalty agli artisti reali. Secondo Liz Pelly, autrice di Mood Machine: The Rise of Spotify and the Costs of the Perfect Playlist, la piattaforma avrebbe sviluppato un programma interno, chiamato “Perfect Fit Content” (PFC), per riempire le playlist curate con musica economica e generica, evitando così costi elevati.
Cosa sono i contenuti PFC?
Il programma PFC, introdotto a metà degli anni 2010, coinvolge aziende affiliate che producono grandi quantità di musica a basso costo. Questi brani vengono poi inseriti di nascosto nelle playlist più popolari di Spotify. L’obiettivo? Aumentare la percentuale di streaming di contenuti meno costosi per la piattaforma, massimizzando i margini di profitto.
Un ex dipendente ha rivelato che, dopo il lancio ufficiale del programma, le dashboard interne dei curatori di playlist includevano una nuova colonna con dati su come i brani PFC influenzavano le prestazioni delle playlist. Inizialmente, l’aggiunta di questi brani era suggerita senza pressione, ma con il tempo è diventata una pratica obbligatoria.
L’impatto sugli artisti reali
Gli ex dipendenti hanno espresso disagio per questa strategia, che sostituisce artisti autentici con compositori di musica generica. “Non è giusto,” ha dichiarato uno di loro, descrivendo il processo come inarrestabile, paragonandolo a “un treno in corsa”. Per aggirare il dissenso interno, Spotify avrebbe assunto nuovi editor meno critici verso il programma.
Ad oggi, il PFC gestisce centinaia di playlist, tra cui titoli popolari come “Deep Focus” e “Cocktail Jazz”, dominate da contenuti creati appositamente per il modello.
Diritti musicali svenduti?
La situazione si complica ulteriormente per gli artisti che collaborano con aziende affiliate al programma. Un musicista jazz ha raccontato di essere stato pagato solo poche centinaia di dollari per comporre brani rilasciati sotto pseudonimo su Spotify. Nonostante il successo di alcune tracce, con milioni di stream, il musicista ha affermato di aver praticamente svenduto i suoi diritti intellettuali.
Royalty sempre più basse
Questo schema sembrerebbe mirato a evitare il pagamento delle già basse royalty agli artisti reali, che ricevono solo una frazione di centesimo per ogni streaming. Nonostante le smentite di Spotify, il CEO Daniel Ek ha recentemente dichiarato che “il costo di creare contenuti è ormai quasi nullo”, alimentando dubbi sulle pratiche della piattaforma.
Conclusione
Se confermate, queste accuse mettono in discussione l’etica di Spotify, una piattaforma che si presenta come sostenitrice degli artisti ma che potrebbe invece danneggiarli. Per ora, Spotify non ha commentato ufficialmente le affermazioni riportate nel libro.
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