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Salute

La sindrome metabolica è collegata a un aumento del rischio di malattia di Parkinson

La ricerca medica ha recentemente identificato la sindrome metabolica, una condizione caratterizzata da un insieme di disfunzioni metaboliche, come un fattore di rischio significativo per l'insorgenza del morbo di Parkinson. Questo legame inaspettato apre la strada a un nuovo paradigma di prevenzione e gestione della malattia, suggerendo che un approccio mirato alla correzione dei disordini metabolici potrebbe contribuire a mitigare il rischio di sviluppare questa complessa patologia neurodegenerativa

Denise Meloni 4 ore fa Commenta! 8
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Un recente studio condotto da Xinjie Zhang e il suo team dell’Università del Sichuan, in Cina, ha gettato nuova luce su una potenziale relazione tra la sindrome metabolica (MetS) e un aumentato rischio di sviluppare il morbo di Parkinson (MP). Questa ricerca, che si basa su una vasta coorte prospettica di adulti nel Regno Unito, suggerisce che l’incrocio tra disfunzioni metaboliche e disturbi neurologici potrebbe essere più profondo di quanto si pensasse in precedenza.

Contenuti di questo articolo
Un legame preoccupante: sindrome metabolica e morbo di ParkinsonUn’associazione genetica e clinicaL’impatto clinico della sindrome metabolica sul morbo di Parkinson
La sindrome metabolica è collegata a un aumento del rischio di malattia di parkinson

Un legame preoccupante: sindrome metabolica e morbo di Parkinson

Per comprendere appieno l’associazione, i ricercatori hanno esaminato i dati provenienti dalla UK Biobank, analizzando un vasto campione di individui di età compresa tra i 37 e i 73 anni che, al momento dell’arruolamento, non avevano ancora manifestato i sintomi del morbo di Parkinson. L’obiettivo era duplice: da un lato, verificare se la presenza della sindrome metabolica nel suo complesso fosse un fattore predittivo per lo sviluppo futuro del Parkinson e, dall’altro, identificare quali specifici componenti della sindrome (come ipertensione, iperglicemia, obesità addominale e dislipidemia) potessero giocare un ruolo più significativo.

I risultati di questo studio sono di estrema rilevanza, perché confermano un’associazione diretta e significativa tra la sindrome metabolica e il rischio di sviluppare il morbo di Parkinson. Fino a poco tempo fa, il legame tra queste due condizioni era solo ipotizzato. Questa ricerca trasforma la semplice ipotesi in un dato scientifico, aprendo nuove prospettive sia per la comprensione che per la gestione del morbo di Parkinson.

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La sindrome metabolica è collegata a un aumento del rischio di malattia di parkinson

Questa scoperta suggerisce un vero e proprio cambio di paradigma nella prevenzione del morbo di Parkinson. Tradizionalmente, la ricerca si è concentrata quasi esclusivamente sui fattori neurologici e genetici. Ora, l’attenzione si sposta anche sulla salute metabolica. Controllare i componenti della sindrome metabolica, come l’iperglicemia, l’ipertensione e l’obesità, non è più solo una strategia per prevenire malattie cardiovascolari, ma può diventare anche un’importante strategia per la salute neurologica a lungo termine.

L’approccio integrato proposto da questo studio implica che un intervento precoce sui fattori di rischio metabolici potrebbe avere un effetto neuroprotettivo. La gestione attiva di condizioni come il diabete di tipo 2 o l’ipertensione potrebbe contribuire a ridurre l’incidenza del morbo di Parkinson, specialmente in individui geneticamente predisposti o a rischio. L’adozione di uno stile di vita sano, che includa una dieta equilibrata e attività fisica regolare, diventa quindi un’arma a doppio taglio, utile non solo per il benessere fisico generale ma anche per preservare la funzionalità cerebrale e neurologica nel tempo.

Un’associazione genetica e clinica

Un recente studio ha esplorato in dettaglio il legame tra la sindrome metabolica (MetS) e il rischio di sviluppare il morbo di Parkinson (MP). La ricerca ha coinvolto un’ampia coorte di 467.200 partecipanti e ha definito la sindrome metabolica come la presenza di almeno tre dei seguenti cinque fattori di rischio clinico: un’elevata circonferenza vita, ipertensione, bassi livelli di colesterolo HDL, elevati livelli di trigliceridi ed iperglicemia.

La sindrome metabolica è collegata a un aumento del rischio di malattia di parkinson

Oltre a questi parametri, i ricercatori hanno valutato anche un punteggio di rischio poligenico (PRS) per il morbo di Parkinson, calcolato sulla base della presenza di 26 alleli genetici noti per essere associati alla malattia. Questo punteggio è stato classificato come basso, moderato o alto, offrendo una misura della predisposizione genetica di ciascun individuo.

L’analisi ha rivelato che il 37,97% dei partecipanti era affetto da sindrome metabolica. Durante il periodo di follow-up, un totale di 3.222 individui ha sviluppato il morbo di Parkinson, con un’incidenza di 5,01 casi ogni 10.000 anni-persona. I dati hanno dimostrato un’associazione significativa: i partecipanti con sindrome metabolica avevano un rischio di sviluppare il morbo di Parkinson superiore del 39% rispetto a quelli senza sindrome metabolica (Hazard Ratio: 1,39).

Ancora più interessante è stata l’osservazione di una relazione dose-dipendente: all’aumentare del numero di componenti della sindrome metabolica presenti in un individuo, aumentava proporzionalmente anche il rischio di sviluppare la malattia neurologica. Ogni componente aggiuntivo ha incrementato il rischio del 14% (Hazard Ratio: 1,14).

La sindrome metabolica è collegata a un aumento del rischio di malattia di parkinson

L’aspetto più sorprendente dello studio riguarda l’interazione tra la sindrome metabolica e la predisposizione genetica. Il rischio più elevato di morbo di Parkinson è stato riscontrato nel gruppo di partecipanti che combinava la sindrome metabolica con un punteggio di rischio poligenico (PRS) elevato.

In questo sottogruppo, il rischio di sviluppare la malattia era 2,58 volte superiore rispetto ai partecipanti senza sindrome metabolica e con un PRS basso. Questo dato suggerisce che la sindrome metabolica non agisce in modo isolato, ma può amplificare il rischio derivante dalla predisposizione genetica, sottolineando l’importanza di un’interazione tra fattori ambientali e genetici nello sviluppo del morbo di Parkinson.

L’impatto clinico della sindrome metabolica sul morbo di Parkinson

Un’ampia meta-analisi, che ha esaminato i dati di oltre 24 milioni di partecipanti e registrato più di 98.000 nuovi casi di morbo di Parkinson, ha consolidato l’evidenza di un legame tra la sindrome metabolica (MetS) e la malattia neurodegenerativa. L’analisi ha dimostrato che i pazienti affetti da sindrome metabolica hanno un rischio relativo del 29% superiore di sviluppare il morbo di Parkinson rispetto alla popolazione generale. Questo dato, che emerge da un campione di dimensioni senza precedenti, rafforza significativamente le scoperte di studi precedenti e fornisce una base solida per considerare la sindrome metabolica come un fattore di rischio clinicamente rilevante per il morbo di Parkinson.

La sindrome metabolica è collegata a un aumento del rischio di malattia di parkinson

Il coautore dello studio, il Dottor Weili Xu del Karolinska Institutet di Stoccolma, ha sottolineato l’aspetto più cruciale di questa scoperta: la sindrome metabolica non è un fattore di rischio immutabile. Al contrario, essa rappresenta un fattore di rischio modificabile, il che apre la strada a nuove e promettenti strategie preventive. Questo concetto è rivoluzionario, perché suggerisce che intervenire sui componenti della sindrome metabolica, come l’obesità, l’ipertensione, la dislipidemia e l’iperglicemia, potrebbe avere un effetto neuroprotettivo.

La ricerca futura dovrà ora concentrarsi su studi clinici e prospettici per verificare se il controllo e la gestione attiva della sindrome metabolica possano effettivamente ridurre l’incidenza del morbo di Parkinson. L’obiettivo sarà comprendere se la prevenzione cardiovascolare e metabolica possa essere un’efficace strategia per la salute cerebrale a lungo termine, trasformando la gestione di condizioni comuni in un’arma preventiva contro una delle malattie neurodegenerative più debilitanti.

Lo studio è stato pubblicato su Neurology.

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