Circa l’80% delle persone con sindrome di Down sviluppa il morbo di Alzheimer, spesso tra i 40 ei 50 anni. Una nuova ricerca coordinata dall’Università di Lund in Svezia ha dichiarato che un semplice esame del sangue può rilevare il morbo di Alzheimer nelle persone con sindrome di Down con un alto grado di certezza. I risultati sono importanti per diversi motivi, non ultimo la capacità di fare una diagnosi corretta senza procedure invasive.
I risultati dello studio sono stati pubblicati sulla rivista scientifica JAMA Neurology.
Sindrome di Down e morbo di Alzheimer: ecco cosa ha intercettato la nuova analisi del sangue
L’unico studio al mondo ,relativamente ampio, sviluppato dall’Università di Lund in Svezia sulla sindrome di Down, ha intercettato un biomarcatore del sangue che viene confrontato con i risultati dell’imaging PET per vedere se le persone hanno gli accumuli significativi delle proteine nel cervello che definiscono il morbo di Alzheimer. La ricerca ha reclutato 300 individui con diagnosi di sindrome di Down, il 40% dei quali ha mostrato segni di insorgenza del morbo di Alzheimer.
“Con una semplice analisi del sangut, siamo stati in grado di rilevare sia le patologie tau che quelle amiloidi, i cambiamenti correlati alla malattia nel cervello che indicano se una persona ha l’Alzheimer o meno, con una certezza superiore al 90%. Siamo stati anche in grado di diagnosticare coloro che ne sono affetti non aveva ancora sviluppato un chiaro deterioramento cognitivo a causa del morbo di Alzheimer”, ha dichiarato Oskar Hansson, Professore di Neurologia all’Università di Lund e consulente senior presso lo Skåne University Hospital.
Nel 2020, Oskar Hansson e i suoi colleghi di ricerca hanno annunciato il loro importante passo avanti nella diagnostica dell’Alzheimer: che un biomarcatore nel sangue, la tau fosforilata (P-tau217) può rilevare la malattia di Alzheimer già 20 anni prima che i problemi di memoria diventino evidenti e, soprattutto, distinguere il morbo di Alzheimer da altre forme di demenza con una precisione di circa il 95%. Sono attualmente in corso studi clinici in 25 centri sanitari in Svezia, che includono sia valutazioni cognitive che misurazioni di P-tau217 nel sangue.
“Abbiamo utilizzato lo stesso biomarcatore del sangue in questo studio. Molte persone non sono consapevoli del fatto che il morbo di Alzheimer si manifesta molto più frequentemente e in età precoce nelle persone con sindrome di Down. È anche più complicato diagnosticare il morbo di Alzheimer in una persona con sindrome di Down, poiché esiste è una disabilità intellettiva preesistente che rende più difficile rilevare il deterioramento cognitivo e richiede che il paziente accetti procedure invasive come i test del liquido spinale. È quindi di particolare importanza trovare un metodo diagnostico semplice”, ha spiegato Oskar Hansson.
Il motivo per il quale gli individui con sindrome di Down sviluppano il morbo di Alzheimer a un tasso relativamente alto è che hanno un cromosoma in più, tre copie del cromosoma 21 invece di due. Il gene per la proteina precursore dell’amiloide(APP) che viene scissa per produrre l’amiloide, si trova sul cromosoma 21: “La sindrome di Down produce più proteina APP e quindi si traduce in un rischio significativamente maggiore di aggregati amiloidi, che a loro volta portano ad aggregati tau”, ha affermato Shorena Janelidze, ricercatrice presso l’Università di Lund.
In Italia, un bambino ogni 1.200 nati riceve una diagnosi di sindrome di Down. La stima è di circa 500 nascite all’anno per un totale quindi di 38.000 persone. Secondo l’Oms: “L’incidenza stimata della sindrome di Down è compresa tra 1 su 1.000 e 1 su 1.100 nati vivi in tutto il mondo. Ogni anno nascono circa da 3.000 a 5.000 bambini con la trisomia 21 e si ritiene che ci siano circa 250.000 famiglie negli Stati Uniti – unici a rilevare in parte il dato – con diagnosi di sindrome di Down”.
Secondo i dati pubblicati dall’Istituto superiore di Sanità: “Numerose indagini epidemiologiche hanno messo in evidenza che l’incidenza aumenta con l’avanzamento dell’età materna, anche se non si sono mai dimostrate le cause di questa relazione. Tuttavia con un’età materna inferiore a 30 anni la prevalenza è di un caso ogni 1.500 nati, mentre oltre i 45 anni si raggiunge un caso su 38 nati”.
la professoressa Marzia Perluigi, del Dipartimento di Scienze Biochimiche dell’Università La Sapienza di Roma, ha dichiarato: ““La sindrome di Down è la più comune anomalia genetica responsabile di disabilità intellettiva, con una frequenza intorno a 1 ogni 800 nascite di bambini positivi alla sindrome di Down”.
“È una malattia che ha diversi aspetti legati a difetti dell’apprendimento, anche associati a declino cognitivo e questo è un aspetto interessante quando si guarda in prospettiva alla crescita e all’invecchiamento di soggetti affetti affetti da sindrome di Down. La frequenza tra maschi e femmine è media, diciamo che la popolazione è mista di uomini e donne affetti da sindrome di Down”.
Il Professor Eugenio Barone ha aggiunto: ” Innanzitutto siamo stati in grado dimisurare, attraverso un prelievo di sangue, delle alterazioni che si verificano a livello del cervello. Questo è un grande risultato, perché oggi non abbiamo strumenti per identificare questo tipo di alterazioni. Mi riferisco in particolare ad alterazioni del segnale dell’insulina che, probabilmente pochi sanno, ha un ruolo fondamentale a livello del cervello, in quanto l’insulina è coinvolta in maniera molto importante nella regolazione delle funzioni cognitive e della memoria”.
“Quindi, quello che abbiamo scoperto è che c’è una riduzione dell’attività di questo segnale a livello del cervello dei bambini con sindrome di Down e che questo tipo di alterazione si verifica molto molto presto già nei bambini, considerato che il nostro studio coinvolge ragazzi e bambini con un’età compresa tra i due e i 17 anni”.
“Questo, secondo noi, diventa un risultato fondamentale per capire soprattutto quali sono i meccanismi alla base della disabilità intellettiva di questi ragazzi che vanno oltre quella che è la base genetica già della stessa condizione da sindrome di Down”.
Il Professor Barone ha altresì spiegato perché è importante eseguire queste analisi: “Noi lo proiettiamo nel futuro, perché le persone con sindrome di Down hanno, purtroppo, un rischio elevatissimo di sviluppare la malattia di Alzheimer a partire dai 40 anni di età”.
“Questo tipo di alterazioni che abbiamo individuato nei bambini sono alterazioni tipiche della malattia di Alzheimer, quindi hanno una duplice valenza: da una parte hanno il ruolo di determinare un deficit cognitivo che inizia già da bambini, dall’altro la persistenza di questo tipo di alterazioni potrebbe favorire e accelerare lo sviluppo dell’Alzheimer in queste persone”.
“Per noi questo è stato un elemento di grande orgoglio, perché siamo tra i pochi gruppi in Italia che si interessano dello sviluppo della malattia di Alzheimer nella sindrome di Down e quindi questo ci ha dato chiaramente estrema visibilità, sia in un contesto europeo che in contesti internazionali, grazie anche a collaborazioni molto importanti con gruppi di ricerca molto prestigiosi negli Stati Uniti”.
“Ci siamo occupati di un argomento davvero all’avanguardia e di interesse anche per la popolazione normale, anche perchè i nostri studi hanno lo scopo di fornire informazioni e conoscenze di base che non sono solo di interesse per la popolazione con sindrome di Down, ma anche per la popolazione generale”.
“Le nostre strategie terapeutiche possono essere applicate ai pazienti con sindrome di Down ma pensiamo che lo possano essere anche per la popolazione generale. Quindi, impattare sul trattamento dell’Alzheimer nella popolazione, con o senza sindrome di Down di Down ma pensiamo che lo possano essere anche per la popolazione generale”.
“Quindi, impattare sul trattamento dell’Alzheimer nella popolazione, con o senza sindrome di Down. Chiaramente questo aspetto molecolare della malattia ci ha permesso anche di accedere a fondi piuttosto importanti e quindi di poter finanziare le nostre ricerche, che sono abbastanza costose, grazie all’ottenimento di fondi di ricerca sia nazionali che internazionali”.
I passi futuri saranno quelli di studiare la progressione di queste alterazioni durante il corso della vita di queste persone. Noi adesso abbiamo iniziato con bambini e ragazzi in età preadolescenziale, ci poniamo l’obiettivo di andare avanti nello studio e vedere come variano queste alterazioni nell’arco della vita di queste persone, proprio per individuare qual è il vero contributo, oltre che alla disabilità intellettiva anche allo sviluppo della neuro degenerazione in queste persone”.
“Per quanto riguarda la posizione dell’Italia nell’ambito della ricerca internazionale, La Professoressa Pierluigi ha affermato: “Noi siamo abituati ad essere sempre un passo indietro rispetto alla ricerca europea e americana, ma posso dire con un certo orgoglio che, invece, in questo contesto noi in Italia, non solo il nostro gruppo di circa ma anche altri bravissimi colleghi italiani”.
“Abbiamo dato un contributo fondamentale alla comprensione dei meccanismi molecolari che sono responsabili della sindrome di Down e che contribuiscono allo sviluppo della demenza, così come altre comorbidità che caratterizzano i soggetti con sindrome di Down. Quindi mi sento di dire che il contributo italiano nella ricerca nel campo della sindrome di Down è estremamente importante. I colleghi europei ci guardano e ci ascoltano con interesse e riconoscono il contributo che abbiamo dato in questi anni alla ricerca nel campo della sindrome di Down”.
È importante specificare se le nuove ricerche sono applicabili ad altri disturbi neurodegenerativi: “Penso di poter dire con abbastanza tranquillità di sì ed è qualcosa che in realtà è partito dall’Alzheimer e noi abbiamo traslato alla sindrome di Down”.
“Quindi, le malattie neurodegenerative, di cui l’Alzheimer è una delle malattie per eccellenza, sicuramente possono trarre beneficio anche da quello che abbiamo scoperto nella sindrome di Down. Che è anche un po’ il percorso che la ricerca sulla sindrome di Down sta seguendo a livello internazionale. Dunque, studiare la sindrome di Down per capire in anticipo quali siano i meccanismi che, normalmente, si ritrovano alla base dello sviluppo di altre malattie neurodegenerative come l’Alzheimer”, ha concluso il Professor Barone.