Un team di ricerca di di Oxford ha scoperto un gene del dolore cronico che regola appunto la sensibilizzazione al dolore amplificando i segnali del dolore stesso all’interno del midollo spinale. Si tratta di una scoperta importante poiché grazie a questo gene si potrà capire la dinamica alla base del dolore cronico negli esseri umani e sarà un nuovo obiettivo per sviluppare nuovi trattamenti terapeutici.
I risultati della ricerca sono stati pubblicati sulla Rivista scientifica Neuron.
Gene del dolore cronico: ecco come agisce
Il dolore cronico è una patologia diffusa che colpisce milioni di persone in tutto il mondo, ma il motivo per cui alcune persone sono più inclini ad esso e quali fattori portano al dolore cronico, ad oggi, non sono del tutto chiari. Si sa che la stimolazione ripetuta, ad esempio con una puntura affilata, può portare a una maggiore sensibilità al dolore. Questo processo è chiamato “riduzione del dolore” e contribuisce ai disturbi clinici del dolore.
Durante lo studio per determinare l’esistenza di un gene del dolore cronico, i ricercatori del Dipartimento di neuroscienze cliniche del Nuffield di Oxford hanno prima confrontato la variazione genetica in campioni di oltre 1.000 partecipanti dalla Colombia, per cercare indizi sull’eventuale presenza di varianti genetiche più comuni nelle persone che hanno sperimentato una maggiore forma di dolore. Gli scienziati hanno osservato una differenza significativa nelle varianti di un gene specifico (la proteina Sodio Calcio scambiatore di tipo-3, NCX3).
Successivamente, il team di ricerca ha intrapreso una serie di esperimenti sui topi, per capire quali di amiche del gene del dolore NCX3 venissero attivate e se potesse essere un obiettivo per futuri trattamenti terapeutici. NCX3 è stato espresso nei neuroni del midollo spinale della cavia che elaborano e trasmettono segnali del dolore al cervello. il gene del dolore NCX3 era fondamentale per questi neuroni affinché esportassero il calcio in eccesso che si accumulava in seguito all’attività. In assenza di NCX3, i neuroni del midollo spinale hanno mostrato una maggiore attività in risposta ai segnali di lesione dalla periferia e la chiusura del dolore è stata aumentata.
Al contrario, l’aumento dei livelli del gene del dolore NCX3 all’interno del midollo spinale potrebbe ridurre il dolore nel topo.
David Bennett, Professore di neurologia e neurobiologia del Dipartimento di neuroscienze cliniche di Nuffield, ha dichiarato: “Questa è la prima volta che siamo stati in grado di studiare il dolore negli esseri umani e poi di dimostrare direttamente il meccanismo che sta dietro ad esso nei topi, che ci fornisce una comprensione davvero ampia dei fattori coinvolti e di come possiamo iniziare a sviluppare nuovi trattamenti per questo”.
Il Professor Bennett ha aggiunto: “Il dolore cronico è un problema globale e può essere immensamente debilitante. Abbiamo condotto lo studio in Colombia a causa della discendenza mista della popolazione locale, comprese le popolazioni native indiane, africane ed europee, che ci ha fornito un’ampia gamma della diversità genetica da guardare. Questo rende questi risultati così interessanti a causa delle loro potenziali applicazioni internazionali. I risultati implicano che qualsiasi farmaco in grado di aumentare l’attività del gene del dolore NCX3 dovrebbe ridurre la sensibilizzazione al dolore negli esseri umani”.
Per quanto riguarda il trattamento del dolore cronico in Italia, Il Professor Gianvincenzo D’Andrea è una delle colonne portanti di ISAL, Presidente della Associazione Nazionale Amici della Fondazione ISAL e Vice Presidente della Fondazione, ha dichiarato: “Tanti episodi della mia vita professionale, sia in ISAL che prima che incontrassi la Fondazione, dimostrano che molte persone afflitte da dolore cronico non sanno che esistono una possibilità di cura e centri in cui si trattano le patologie di cui soffrono; ciò è fonte di una serie di sofferenze veramente inutili. Mi è capitato tantissime volte di dare una svolta alla vita di queste persone, erano convinte che non ci fosse soluzione al loro problema: avevano sperimentato una serie di percorsi inadeguati. Con la terapia del dolore la loro esistenza è cambiata, hanno ritrovato una qualità di vita che non avevano più da decenni”.
“Queste persone si erano convinte che non ci fosse una soluzione e si erano ritirate nella loro solitudine, interrompendo i rapporti sociali e condannandosi a una sofferenza inutile – Ha continuato l’esperto – Bisogna far capire a chi soffre di dolore cronico che una possibilità di cura c’è; esistono tante possibilità, occorre capire bene qual è il problema. Per chi soffre di un dolore violento, anche solo ridurlo del 50 per cento è un risultato percepito come quasi miracoloso. Io credo sia necessario far passare un messaggio di comprensione e di speranza: far capire a chi soffre che c’è qualcuno che vuole occuparsi del suo problema. Noi ci occupiamo del loro problema per aiutarli a trovare una soluzione, che nel 95% dei casi è disponibile”.
“Credo che senza un atteggiamento di vicinanza, sia difficile far compiere al paziente il passo fondamentale per mettere in pratica le terapie. Se non c’è un rapporto empatico credo che non si riesca a salvarli dalla condizione psicologica in cui sono precipitatati e che li trattiene dal rapporto terapeutico. L’attività medica non può prescindere dall’ascolto e dal rendersi disponibile all’immedesimarsi; io dico sempre che i medici sono molto bravi a sopportare il dolore, ma quello altrui. Il dolore va capito in tutte le ripercussioni che ha sulla vita personale, altrimenti si può fare molto poco per persone che hanno un dolore cronico da anni e decenni”, ha continuato il Professor D’Andrea.
Spesso ci si interroga se una terapia specifica, come quella di aver individuato il gene del dolore, possa essere valida per il trattamento di ogni paziente: “Non ce n’è una più efficace dell’altra – Ha spiegato lo studioso – ognuna deve essere adeguata al problema. Non esiste una terapia che possa andare bene per tutti, perché ogni dolore ha una propria peculiarità, ha bisogno di qualcosa che sia solo suo. Ogni dolore assomiglia agli altri, ma è una situazione a se, c’è qualcosa che lo differenzia. Non c’è una terapia migliore di un’altra, ma c’è una terapia migliore per quella condizione particolare, e va innanzi tutto riconosciuta”.