I pesci sembrano sospesi nell’acqua come se fosse la cosa più naturale del mondo. Ma una nuova ricerca pubblicata il 7 luglio sulla prestigiosa Proceedings of the National Academy of Sciences ribalta una convinzione radicata da decenni: mantenere una posizione statica nella colonna d’acqua è tutt’altro che facile per un pesce. Anzi, costa quasi il doppio dell’energia rispetto al semplice riposo sul fondo.

A guidare lo studio è Valentina Di Santo, biologa marina della Scripps Institution of Oceanography presso l’Università della California, San Diego e il suo team ha studiato 13 specie di pesci dotati di vescica natatoria, cioè una sacca interna piena di gas che permette loro di raggiungere la galleggiabilità neutra e fino ad oggi, si pensava che questa caratteristica rendesse il “fluttuare” praticamente privo di sforzo.
Il mito del riposo in sospensione
Per anni, la ricerca scientifica ha considerato la sospensione nell’acqua come una forma di riposo passivo e la logica era semplice: se i pesci non salgono né scendono e sembrano immobili, devono essere a riposo, ma Di Santo ha voluto indagare più a fondo. In esperimenti controllati, il suo team ha misurato il consumo di ossigeno dei pesci sia durante la sospensione attiva nell’acqua che durante il riposo statico sul fondo. Il risultato? Sospendersi costa il doppio dell’energia.
“È un po’ come cercare di restare in equilibrio su una bicicletta ferma”, spiega Di Santo. “Sembra facile, ma non lo è affatto”.
Un equilibrio dinamico e instabile
Anche con la vescica natatoria, i pesci non sono perfettamente stabili. Il loro centro di massa (legato alla distribuzione del peso) e il centro di galleggiamento (legato alla posizione della vescica) non coincidono. Questa disallineamento crea una tendenza naturale al ribaltamento, che i pesci compensano con continui e impercettibili movimenti delle pinne.

Utilizzando telecamere ad alta velocità, i ricercatori hanno filmato questi micromovimenti, scoprendo che i pesci regolano costantemente l’inclinazione del corpo per restare fermi in acqua e più è grande la distanza tra i due centri, più energia serve per mantenere l’equilibrio.
“Quello che mi ha colpito di più è l’eleganza con cui tutti questi pesci mantengono una postura stabile, nonostante l’instabilità strutturale”, racconta Di Santo.
Forma del corpo ed efficienza
Non tutti i pesci sono uguali in questa sfida. Lo studio ha evidenziato che la forma del corpo e la posizione delle pinne pettorali influenzano direttamente il dispendio energetico. Pesci con pinne più arretrate risultano più efficienti nella sospensione, forse per via di un miglior effetto leva. I pesci lunghi e sottili, come il Lamprologus ocellatus o il giant danio, consumano più energia rispetto a specie dal corpo corto e compatto come il pesce rosso (Carassius auratus) o il pesce palla Dichotomyctere ocellatus.
Un costo elevato, ma necessario
Restare sospesi non è una scelta casuale: è una strategia. Serve per nutrirsi, difendere il nido, osservare l’ambiente. Quindi, nonostante l’elevato costo energetico, i pesci vi ricorrono spesso. In più, la ricerca svela un interessante compromesso evolutivo: maggiore manovrabilità significa minore efficienza nella sospensione e viceversa; tutto questo è fondamentale in ambienti complessi come le barriere coralline, dove agilità e reattività fanno la differenza tra sopravvivenza e predazione.
Ispirazione per la robotica subacquea
Queste scoperte hanno importanti ricadute anche nella tecnologia. I robot subacquei, per esempio, sono spesso progettati per essere stabili grazie a forme compatte. Ma proprio come per i pesci, una maggiore stabilità riduce la manovrabilità.

“Se vogliamo costruire robot capaci di esplorare relitti o ambienti stretti come le barriere coralline, dovremo imparare dai pesci: inserire un po’ di instabilità progettata e poi compensarla dinamicamente”, propone Di Santo.
Una collaborazione internazionale
Lo studio è stato realizzato in collaborazione con Xuewei Qi (Università di Stoccolma), Fidji Berio (Scripps), Angela Albi (Università di Stoccolma, Istituto Max Planck e Università di Costanza) e Otar Akanyeti (Università di Aberystwyth, Galles); questo progetto è stato finanziato dal Consiglio di Ricerca Svedese, dalla Commissione Europea, dallo Stockholm University Brain Imaging Centre e dal Whitman Scientist Program del Marine Biological Laboratory.