L’esplorazione delle proprietà bioattive degli acidi grassi omega-3 rivela un promettente orizzonte terapeutico. La loro implicazione nella modulazione dei meccanismi patogenetici del diabete di tipo 2 e dell’artrite reumatoide, attraverso vie metaboliche e infiammatorie distinte, delinea un approccio nutrizionale di potenziale impatto clinico significativo.

Il diabete di tipo 2: Un intreccio complesso di cause, conseguenze e il ruolo cruciale dell’ApoB
Nel panorama globale della salute, il diabete di tipo 2 (T2D) rappresenta una sfida di proporzioni significative, con stime che nel 2021 attestano una prevalenza di circa il 6% della popolazione mondiale, traducendosi in un impatto sulla vita di ben 529 milioni di individui. Nello stesso anno, questa patologia subdola e progressiva è stata direttamente o indirettamente responsabile di 1,6 milioni di decessi, sottolineando la sua gravità come problema di salute pubblica a livello planetario.
Il diabete di tipo 2 non è una condizione monolitica, bensì una malattia complessa che si instaura insidiosamente nel tempo, caratterizzata da una duplice anomalia metabolica: una progressiva incapacità dell’organismo di produrre una quantità sufficiente di insulina, l’ormone chiave per regolare i livelli di glucosio nel sangue, e/o una crescente inefficienza nell’utilizzo dell’insulina prodotta, una condizione nota come insulino-resistenza. Queste disfunzioni intricate compromettono in maniera significativa la capacità fondamentale dell’organismo di utilizzare e immagazzinare correttamente i tre macronutrienti essenziali: zuccheri (carboidrati), grassi (lipidi) e proteine
Le ripercussioni di questo squilibrio metabolico sono di vasta portata e potenzialmente devastanti. Il diabete di tipo 2 non è semplicemente una questione di elevati livelli di glucosio nel sangue; esso agisce come un potente fattore di rischio per lo sviluppo di numerose e gravi comorbilità, tra cui spiccano le malattie cardiovascolari come l’infarto miocardico e l’ictus, che rappresentano alcune delle principali cause di mortalità e morbilità a livello globale.

Inoltre, il diabete di tipo 2 è riconosciuto come una primaria causa di disabilità in diverse forme, dalla neuropatia diabetica che può portare all’amputazione degli arti inferiori alla retinopatia diabetica che può culminare nella cecità, fino alla nefropatia diabetica che può progredire verso l’insufficienza renale terminale. In sintesi, il diabete di tipo 2 si configura come una delle principali cause di disabilità e morte nel mondo. Tuttavia, un aspetto cruciale e incoraggiante è che, nonostante la sua gravità, il diabete di tipo 2 è fortemente prevenibile attraverso modifiche dello stile di vita, in particolare interventi dietetici e aumento dell’attività fisica.
Nell’ambito della patofisiologia del diabete di tipo 2, un attore sempre più riconosciuto nel suo ruolo chiave è rappresentato dalle lipoproteine a bassa densità (LDL), spesso etichettate come il “colesterolo cattivo”. Nelle persone affette da diabete di tipo 2, la presenza di un numero elevato di queste particelle LDL, quantificabile attraverso la misurazione di una proteina strutturale chiamata apolipoproteina B (apoB) nel sangue alta, è strettamente associata a un aumentato rischio di sviluppare malattie cardiovascolari.
Storicamente, la comprensione di questa associazione tendeva a interpretare gli elevati livelli di apoB (e di conseguenza di LDL) nel sangue come una conseguenza secondaria del diabete di tipo 2, ipotizzando che le alterazioni metaboliche indotte dalla malattia portassero a un aumento della produzione o a una ridotta eliminazione di queste lipoproteine. Tuttavia, i dati emergenti e sempre più consistenti provenienti dalla ricerca clinica condotta presso l’unità specializzata in nutrizione, lipoproteine e malattie cardiometaboliche dell’Institut de recherche clinique de Montréal hanno fornito una prospettiva innovativa e potenzialmente rivoluzionaria.

Questi risultati indicano che livelli elevati di apoB nel sangue non sono soltanto una conseguenza del diabete di tipo 2, ma agiscono anche come un fattore causale, contribuendo attivamente allo sviluppo e alla progressione della malattia. Questa ipotesi, inizialmente basata su osservazioni cliniche, ha trovato una solida conferma in ampi studi di popolazione, rafforzando la sua validità scientifica.
Nonostante questa crescente consapevolezza del ruolo bidirezionale dell’apoB nel contesto del diabete di tipo 2, i meccanismi molecolari e fisiopatologici che collegano direttamente livelli elevati di apoB nel sangue all’insorgenza e alla progressione del diabete di tipo 2 rimangono ancora oggetto di intensa investigazione.
Analogamente, i meccanismi attraverso i quali specifici interventi nutrizionali possono modulare i livelli di apoB e, di conseguenza, influenzare il decorso del diabete di tipo 2 rappresentano un’area di ricerca cruciale per lo sviluppo di strategie terapeutiche più efficaci e personalizzate. Comprendere appieno questi intricati meccanismi è fondamentale per aprire nuove vie nella prevenzione e nel trattamento di questa patologia così diffusa e impattante.
Il potenziale protettivo degli Omega-3
Una recente e meticolosa analisi aggregata di ben 67 studi condotti sull’essere umano ha fornito evidenze convincenti di un’associazione significativa tra livelli elevati di acidi grassi omega-3 nel sangue e una minore incidenza di diabete di tipo 2 e malattie cardiovascolari. Questi preziosi acidi grassi polinsaturi, abbondantemente presenti nell’olio di pesce, si distinguono principalmente nelle loro forme di acido eicosapentaenoico (EPA) e acido docosaesaenoico (DHA).Tale scoperta ha acceso un rinnovato interesse nella comprensione dei meccanismi attraverso i quali questi nutrienti essenziali potrebbero esercitare un effetto protettivo sul metabolismo e sul sistema cardiovascolare.

Al fine di dipanare l’intricato legame che intercorre tra i livelli ematici di apoB, la concentrazione di omega-3 e la modulazione del rischio di sviluppare il diabete di tipo 2, il mio team di ricerca presso l’Institut de recherche clinique de Montréal ha intrapreso uno studio clinico controllato che ha coinvolto la partecipazione volontaria di 40 individui sani, non sottoposti ad alcuna terapia farmacologica.
Lo studio, condotto tra il 2013 e il 2019, ha previsto un intervento nutrizionale della durata di 12 settimane, durante le quali i partecipanti hanno ricevuto una supplementazione giornaliera di 2,7 grammi di EPA e DHA, mantenendo al contempo la loro abituale alimentazione. L’approccio metodologico dello studio si è concentrato sulla misurazione dettagliata del metabolismo dei carboidrati e dei grassi e sulla valutazione delle risposte infiammatorie dei partecipanti, con particolare attenzione al tessuto adiposo (grasso), un tessuto metabolicamente attivo cruciale nel contesto del diabete di tipo 2.
Queste misurazioni sono state effettuate sia prima dell’inizio dell’integrazione con EPA e DHA che al termine del periodo di intervento, permettendo di valutare gli eventuali cambiamenti indotti dalla supplementazione.

È fondamentale sottolineare il ruolo complesso e ambivalente dell’infiammazione nell’organismo. In condizioni fisiologiche, l’infiammazione rappresenta un meccanismo di difesa naturale e vitale, essenziale per proteggerci dalle infezioni e per promuovere la riparazione dei tessuti danneggiati. Tuttavia, quando questo processo infiammatorio persiste cronicamente, anche in assenza di agenti patogeni esterni, esso si trasforma in un fattore patogenetico chiave, contribuendo allo sviluppo e alla progressione di numerose malattie croniche, tra cui il diabete di tipo 2 e le malattie cardiovascolari. In questo contesto, l’infiammazione cronica del tessuto adiposo riveste un ruolo particolarmente significativo nella genesi dell’insulino-resistenza, un tratto distintivo del diabete di tipo 2.
L’obiettivo primario di questo studio clinico era duplice: in primo luogo, verificare l’ipotesi che le lipoproteine a bassa densità (LDL), la cui concentrazione è riflessa dai livelli di apoB, potessero indurre e perpetuare uno stato di infiammazione cronica nel tessuto adiposo dei partecipanti sani.
In secondo luogo, lo studio mirava a indagare se l’integrazione con gli acidi grassi omega-3 EPA e DHA potesse esercitare un effetto terapeutico, contrastando e potenzialmente risolvendo questa infiammazione cronica a livello del tessuto adiposo.infiammazione cronica a livello del tessuto adiposo. I risultati di questa ricerca avrebbero potuto fornire nuove importanti intuizioni sui meccanismi attraverso i quali gli omega-3 potrebbero contribuire alla prevenzione e alla gestione del diabete di tipo 2 e delle sue complicanze cardiovascolari.
L’intricata interazione tra ApoB, Omega-3 e la modulazione del rischio cardiometabolico
I risultati preliminari dello studio clinico hanno rivelato un’associazione significativa tra i livelli basali di apolipoproteina B (apoB) nel sangue e lo stato infiammatorio del tessuto adiposo. In particolare, prima dell’inizio dell’integrazione con gli acidi grassi omega-3 EPA (acido eicosapentaenoico) e DHA (acido docosaesaenoico), i partecipanti che presentavano livelli elevati di apoB nel sangue mostravano un’infiammazione del tessuto adiposo significativamente più marcata rispetto ai soggetti con livelli di apoB inferiori. Questa osservazione suggerisce un potenziale ruolo pro-infiammatorio delle lipoproteine a bassa densità (LDL), le cui concentrazioni sono strettamente correlate ai livelli di apoB.

Ancora più rilevante è stata la constatazione che l’infiammazione del tessuto adiposo riscontrata nei soggetti con elevati livelli di apoB era strettamente correlata a diverse anomalie metaboliche, in particolare a disfunzioni nel metabolismo dei carboidrati e dei grassi. Queste alterazioni metaboliche sono ben note per aumentare in modo significativo il rischio di sviluppare nel tempo sia il diabete di tipo 2 che le malattie cardiovascolari, sottolineando ulteriormente il ruolo centrale dell’infiammazione nel nesso tra dislipidemia e patologie cardiometaboliche.
L’intervento nutrizionale con supplementazione di EPA e DHA per un periodo di tre mesi ha indotto cambiamenti metabolici promettenti. L’analisi post-intervento ha evidenziato una riduzione significativa nella capacità delle LDL dei partecipanti di indurre infiammazione nel loro stesso tessuto adiposo. Questo suggerisce che gli omega-3 potrebbero esercitare un effetto protettivo, modulando la risposta infiammatoria a livello del tessuto adiposo in presenza di elevate concentrazioni di LDL.
Inoltre, l’integrazione con EPA e DHA ha attenuato o addirittura eliminato il legame precedentemente osservato tra l’infiammazione del tessuto adiposo, indotta sia dalle LDL che da altri fattori metabolici e microbici, e molti fattori di rischio cruciali per il diabete di tipo 2 e le malattie cardiovascolari. Questo risultato implica che gli omega-3 potrebbero agire come un modulatore chiave nell’interazione complessa tra infiammazione e rischio cardiometabolico.

Oltre a modulare l’infiammazione, l’integrazione con EPA e DHA ha dimostrato di migliorare direttamente la funzionalità metabolica dei partecipanti. In particolare, si è osservato un aumento della capacità di secernere insulina in risposta a un incremento dei livelli di glucosio nel sangue, un aspetto fondamentale per la regolazione glicemica e la prevenzione del diabete di tipo 2. Parallelamente, gli omega-3 hanno potenziato la capacità dell’organismo di eliminare i grassi dal sangue dopo l’ingestione di un pasto ricco di lipidi, contribuendo a migliorare il profilo lipidico post-prandiale, un fattore di rischio indipendente per le malattie cardiovascolari.
È interessante notare che l’efficacia di questi benefici metabolici sembrava essere dose-dipendente, con una maggiore assunzione di EPA e, soprattutto, di DHA, associata a una riduzione più pronunciata dei fattori di rischio per il diabete di tipo 2 e le malattie cardiovascolari.
Data l’importanza cruciale di EPA e DHA per la salute umana e la limitata capacità del nostro organismo di sintetizzarli autonomamente in quantità sufficienti, è imperativo che questi acidi grassi essenziali vengano assunti attraverso la dieta. In linea con le raccomandazioni nutrizionali, la Heart and Stroke Foundation of Canada suggerisce il consumo di due porzioni di pesce a settimana, privilegiando le varietà grasse come aringhe, salmone e sgombro, che possono fornire circa tre grammi di EPA e DHA settimanalmente.

Sebbene gli acidi grassi omega-3 siano presenti anche in alimenti di origine vegetale, come i semi di lino e gli alimenti fortificati, è importante sottolineare che il corpo umano non è in grado di convertire efficacemente gli omega-3 vegetali in EPA e DHA nelle quantità necessarie per ottenere benefici significativi per la salute. Health Canada indica che un’assunzione giornaliera fino a cinque grammi di EPA e DHA può contribuire a supportare e mantenere la salute cardiovascolare, la funzione cognitiva, l’attività cerebrale e l’equilibrio dell’umore negli adulti, oltre a potenzialmente ridurre i livelli di trigliceridi nel sangue e il dolore associato all’artrite reumatoide.
Gli integratori di olio di pesce rappresentano un’ulteriore fonte di EPA e DHA, ma è fondamentale assicurarsi che tali prodotti abbiano ricevuto certificazioni di terze parti, come la certificazione IVO (Internationally Verified Omega-3), che garantiscono elevati standard di purezza e potenza degli omega-3.
In sintesi, i risultati suggeriscono con forza che intervenire sui soggetti con livelli elevati di apoB attraverso l’integrazione di EPA e DHA potrebbe rappresentare una strategia efficace per ridurre il rischio di sviluppare sia il diabete di tipo 2 che le malattie cardiovascolari. In altre parole, gli acidi grassi omega-3 potrebbero esercitare un duplice effetto protettivo, agendo simultaneamente sulla prevenzione di due delle patologie croniche più debilitanti e diffuse a livello globale.

Guardando al futuro, il team di ricerca è attualmente impegnato nell’esplorazione di un fenomeno intrigante, il paradosso per cui la riduzione dei livelli di LDL nel sangue in alcuni individui può paradossalmente aumentare il rischio di diabete di tipo 2, pur esercitando un effetto protettivo sul rischio cardiovascolare. In questo contesto, stiamo attivamente indagando il potenziale ruolo specifico di EPA e DHA nel modulare questo complesso scenario metabolico, con l’obiettivo di fornire una comprensione più completa delle interazioni tra lipidi, infiammazione e rischio cardiometabolico.
Lo studio è stato pubblicato presso l’Institut de recherche clinique de Montréal.