Un recente studio ha identificato una nuova e promettente classe di trattamenti per il morbo di Alzheimer, farmaci già ampiamente utilizzati nella pratica clinica per la gestione dell’HIV e dell’epatite B. Questa scoperta apre inedite prospettive terapeutiche per una malattia neurodegenerativa che affligge milioni di persone in tutto il mondo.

Morbo di Alzheimer: i farmaci antivirali come trattamento potenziale
Oltre alla loro ben nota attività antiretrovirale, i farmaci appartenenti alla classe degli inibitori nucleosidici della trascrittasi inversa (NRTI) possiedono un’ulteriore proprietà farmacologica di grande interesse: la capacità di inibire l’attivazione degli inflammasomi. Come suggerisce il loro nome, gli inflammasomi sono complessi molecolari che agiscono come inneschi dei processi infiammatori all’interno dell’organismo. Proprio questa azione di blocco dell’infiammazione ha rappresentato la razionale scientifica che ha guidato il team di ricerca statunitense nell’esplorazione del potenziale degli NRTI nel contesto dell’Alzheimer.
Per investigare questa ipotesi, i ricercatori hanno condotto un’analisi approfondita dei dati provenienti da due vasti database di assicurazioni sanitarie statunitensi, comprendenti le informazioni relative a 271.198 individui di età superiore ai 50 anni affetti da HIV o epatite B. L’osservazione cruciale emersa da questa analisi è che gli individui all’interno di questo gruppo che avevano assunto regolarmente farmaci NRTI mostravano “riduzioni significative e sostanziali” del rischio di sviluppare il morbo di Alzheimer, rispetto a coloro che avevano ricevuto trattamenti differenti per le loro infezioni virali.

L’analisi condotta sul database della Veterans Health Administration, composto prevalentemente da uomini anziani, ha rivelato una riduzione del rischio di sviluppare Alzheimer pari al 6 percento per ogni anno di assunzione di NRTI. Un risultato ancora più marcato è emerso dall’analisi del database MarketScan, che il team sottolinea includere “una popolazione più ampia, assicurata commercialmente, con una distribuzione più equilibrata per età e sesso”. In questa coorte, la riduzione del rischio associata all’assunzione di NRTI è risultata essere del 13 percento per ogni anno di trattamento.
È fondamentale sottolineare che, data la natura osservazionale dello studio, i risultati ottenuti non stabiliscono un nesso di causalità diretto tra l’assunzione di NRTI e la riduzione del rischio di Alzheimer. Tuttavia, la forte associazione riscontrata in due database indipendenti e di grandi dimensioni rappresenta un’evidenza convincente che merita ulteriori approfondimenti attraverso studi prospettici e meccanicistici. “La riduzione del rischio è stata osservata in due grandi e diversificati database di assicurazioni sanitarie dopo aver corretto numerose comorbilità note per essere associate al morbo di Alzheimer”, concludono i ricercatori nel loro articolo pubblicato, evidenziando la robustezza dei risultati ottenuti.
Il ruolo cruciale degli inflammasomi
Gli inflammasomi rappresentano complessi molecolari intracellulari che agiscono come veri e propri sensori di pericolo, innescando una cascata di segnali pro-infiammatori all’interno dell’organismo in risposta a svariati stimoli, tra cui la presenza di agenti patogeni o di danni cellulari. Nel contesto specifico del morbo di Alzheimer, si ritiene che questi complessi giochino un ruolo significativo nei meccanismi attraverso i quali la malattia si manifesta e progredisce a livello cerebrale.

Sebbene i meccanismi precisi che danno il via alla complessa catena di eventi patologici caratteristici dell’Alzheimer rimangano ancora oggetto di intensa ricerca, è ormai ampiamente riconosciuto il coinvolgimento della neuroinfiammazione. Questo processo infiammatorio cronico a livello cerebrale, innescato dall’accumulo anomalo delle proteine beta-amiloide e tau, è considerato un fattore chiave nella progressione della malattia e potrebbe rappresentare un potenziale bersaglio per lo sviluppo di nuove strategie terapeutiche volte a contrastarne l’evoluzione.
La strategia di riutilizzare farmaci già approvati per altre indicazioni terapeutiche, come nel caso degli inibitori nucleosidici della trascrittasi inversa (NRTI), offre un percorso potenzialmente più rapido ed efficiente per lo sviluppo di trattamenti per malattie complesse come l’Alzheimer. Consapevoli delle promettenti associazioni emerse dal loro studio osservazionale, i ricercatori che hanno condotto questa nuova indagine intendono ora intraprendere la fase cruciale degli studi clinici sugli NRTI specificamente per pazienti affetti da Alzheimer. Parallelamente, sono già in corso ricerche volte a mitigare alcuni degli effetti collaterali che possono derivare dall’impiego di questi farmaci, tra cui potenziali problematiche a livello epatico e ripercussioni sul sistema nervoso.

In prospettiva futura, il team di ricerca sta anche sviluppando un nuovo farmaco specificamente progettato per bloccare l’attività degli inflammasomi. Questo composto innovativo, denominato K9, viene descritto dall’oculista Jayakrishna Ambati dell’Università della Virginia come una versione potenzialmente più sicura ed efficace degli attuali NRTI, aprendo ulteriori promettenti orizzonti nella ricerca di terapie mirate contro il morbo di Alzheimer.
Prospettive future: sperimentazione clinica di K9 e implicazioni globali
“Questo promettente farmaco, K9, è attualmente sottoposto a valutazione clinica per altre patologie, e il nostro prossimo passo cruciale sarà quello di estenderne la sperimentazione anche al morbo di Alzheimer”, ha annunciato con determinazione l’oculista Jayakrishna Ambati dell’Università della Virginia. Questa dichiarazione sottolinea l’impegno del team di ricerca nel tradurre le promettenti scoperte precliniche in potenziali terapie concrete per una malattia neurodegenerativa di portata globale.
Il campo della ricerca sull’Alzheimer è caratterizzato da un progresso continuo e incrementale nella comprensione dei complessi meccanismi patogenetici sottostanti e nello sviluppo di strategie terapeutiche innovative. Sebbene l’ultimo studio abbia focalizzato la sua analisi su una popolazione specifica di individui affetti da HIV o epatite B, i risultati ottenuti sono considerati sufficientemente significativi e incoraggianti da giustificare un’espansione della ricerca. In particolare, si rende necessario un approfondimento delle strategie farmacologiche volte a modulare e regolare i processi infiammatori sistemici come potenziale approccio preventivo e terapeutico contro l’Alzheimer.

La portata del morbo di Alzheimer è immensa e in continua crescita. “Si stima che oltre 10 milioni di persone in tutto il mondo sviluppino questa devastante malattia ogni anno”, ha evidenziato il professor Ambati, sottolineando l’urgenza di trovare soluzioni efficaci. “I nostri risultati preliminari suggeriscono un’implicazione di straordinaria importanza: l’adozione diffusa di farmaci con meccanismi d’azione simili agli NRTI potrebbe potenzialmente prevenire circa 1 milione di nuovi casi di morbo di Alzheimer ogni anno.” Questa stima, sebbene preliminare e basata su dati osservazionali, evidenzia l’enorme impatto potenziale che una strategia preventiva basata sulla modulazione dell’infiammazione potrebbe avere sulla salute pubblica globale e sulla qualità della vita di milioni di individui e delle loro famiglie.
Lo studio è stato pubblicato su Alzheimer’s & Dementia.