Il frutto che Adamo ed Eva mangiarono nel Giardino dell’Eden è, per molti, una mela. Questa convinzione è profondamente radicata nella nostra cultura, tanto da apparire in ogni tipo di opera d’arte e nei discorsi comuni. Eppure, questa immagine si basa su un’interpretazione errata e su una tradizione secolare che non trova fondamento nel testo biblico originale. Analizzando le Scritture e la storia, emerge una realtà molto più complessa e interessante.

Il frutto proibito: smontare il mito della mela nell’Eden
Contrariamente alla credenza popolare, la Bibbia non fa mai menzione esplicita di una mela. Il Libro della Genesi si riferisce genericamente al “frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male”. La parola ebraica originale impiegata nel testo è “peri”, un termine che designa semplicemente “frutto” in senso lato, senza specificarne la tipologia.
Dunque, la natura esatta di questo frutto rimane indefinita: potrebbe essere stato un fico, un dattero, un melograno o qualsiasi altra specie fruttifera che avrebbe potuto prosperare nel lussureggiante ambiente descritto nelle Sacre Scritture. La questione fondamentale che emerge è quindi: da dove ha origine questa persistente associazione con la mela?

La “responsabilità” di questa misconcezione è attribuibile principalmente a un’intrigante ambiguità linguistica sviluppatasi con la traduzione della Bibbia in latino. San Girolamo, nel IV secolo d.C., durante la sua opera di traduzione della Vulgata – la versione latina del testo sacro che sarebbe diventata il punto di riferimento per la cristianità occidentale per oltre un millennio – si trovò di fronte a una scelta interpretativa cruciale. La sua decisione linguistica avrebbe innescato una catena di associazioni che si sarebbero consolidate nel tempo.
La genesi di un simbolo
La persistente associazione del frutto proibito con una mela trova le sue radici in un’intrigante ambiguità linguistica, un gioco di parole che ha permeato secoli di interpretazione biblica e iconografia. San Girolamo, nella sua monumentale opera di traduzione della Bibbia in latino, la Vulgata, si trovò di fronte a una scelta lessicale che avrebbe plasmato l’immaginario occidentale. Nel tentativo di rendere il concetto di “male”, egli selezionò il termine latino “mālum”.
Per una sorprendente coincidenza, o forse per una già esistente associazione fonetica, la parola latina che indicava il melo o il suo frutto era quasi identica: “mālus” per l’albero e, ancora una volta, “mālum” per il pomo. Questa omofonia tra “mālum” (il male) e “mālum” (la mela) creò un ponte semantico straordinariamente potente e immediato, un perfetto assist per un simbolismo che sarebbe diventato universale.

Questa connessione linguistica, da sola, avrebbe potuto rimanere un’interessante curiosità filologica, ma la sua diffusione e il suo radicamento nell’immaginario collettivo furono potentemente cementati e amplificati attraverso il linguaggio dell’arte. A partire dal tardo Medioevo e con crescente enfasi durante il Rinascimento, artisti di ogni disciplina iniziarono sistematicamente a rappresentare la scena della tentazione biblica con il frutto proibito ben visibile tra le mani di Eva.
Maestri indiscussi come Albrecht Dürer, le cui incisioni e dipinti sulla Caduta sono iconici, Tiziano, con la sua maestria cromatica, e Lucas Cranach il Vecchio, noto per le sue interpretazioni allegoriche, contribuirono in modo determinante a fissare questa immagine nell’iconografia cristiana. Le loro opere, riprodotte e diffuse, resero questo frutto non solo riconoscibile, ma inseparabile dal racconto del peccato originale, trasformando un’ambiguità linguistica in una verità visiva indiscussa per generazioni.
L’influenza letteraria: il contributo di John Milton al mito
La scelta della mela come rappresentazione del frutto proibito non fu casuale, ma profondamente radicata nelle sue caratteristiche intrinseche e nelle associazioni simboliche preesistenti. La sua forma rotonda e, in particolare, il suo colore rosso, tradizionalmente legato alla passione, al desiderio e, per estensione, al peccato, la rendevano un simbolo visivamente potente e immediatamente riconoscibile dell’atto di disobbedienza. Questa connotazione cromatica evocava un’attrazione irresistibile, rendendo tangibile la tentazione descritta nelle Scritture e conferendo al frutto un’aura di seduzione e pericolo.

A consolidarne ulteriormente il mito nell’immaginario collettivo e nella cultura popolare contribuì in maniera determinante l’influenza letteraria. In particolare, il poeta inglese John Milton, con il suo monumentale capolavoro “Paradiso perduto” pubblicato nel 1667, giocò un ruolo cruciale. Nella sua epopea, Milton descrive esplicitamente il frutto proibito, fissando questa immagine in un’opera che avrebbe avuto un’enorme risonanza e un impatto duraturo sulla percezione occidentale del racconto biblico.
La sua vivida narrazione rafforzò in modo definitivo l’associazione tra la mela e il peccato originale, cementando un’interpretazione che, nata da un’ambiguità linguistica e amplificata dall’arte, trovò nella letteratura la sua consacrazione definitiva come elemento indiscusso della tradizione.
Lo studio è stato pubblicato su BBC Culture.