La malattia di Alzheimer, una patologia neurodegenerativa che progressivamente compromette le funzioni cognitive, è da tempo oggetto di intense ricerche volte a comprenderne le cause e i fattori di rischio. Tra questi, la familiarità, ovvero la presenza di casi di Alzheimer all’interno della storia familiare, ha sempre rappresentato un elemento di particolare interesse.

L’influenza genitoriale sulla malattia di Alzheimer
Mentre precedenti studi avevano suggerito un potenziale aumento del rischio di sviluppare la malattia in individui con una madre affetta da Alzheimer, una nuova e approfondita indagine scientifica ha portato alla luce una dinamica più sfumata e specifica. Questa ricerca ha rivelato che avere un padre con la malattia di Alzheimer potrebbe essere collegato a una maggiore diffusione nel cervello della proteina tau, un marker patologico distintivo della malattia.
La scoperta che la storia paterna di Alzheimer potrebbe essere associata a una maggiore deposizione di proteina tau nel cervello rappresenta un contributo significativo alla nostra comprensione dei meccanismi patogenetici della malattia. La proteina tau, in condizioni normali, svolge un ruolo cruciale nella stabilizzazione dei microtubuli, strutture essenziali per il trasporto intracellulare nei neuroni.
Nell’Alzheimer, questa proteina subisce alterazioni strutturali e si accumula in forma anomala, formando grovigli neurofibrillari che progressivamente compromettono la funzionalità e la sopravvivenza dei neuroni. Il nuovo studio suggerisce che la predisposizione genetica ereditata dal padre potrebbe influenzare specificamente i processi che portano all’accumulo e alla diffusione di questa proteina tossica nel cervello dei figli.
Un’ulteriore osservazione di notevole importanza emersa da questa ricerca riguarda le potenziali differenze di genere nella suscettibilità all’accumulo di proteina tau. Lo studio ha infatti indicato che le partecipanti di sesso femminile potrebbero essere maggiormente a rischio di sviluppare un carico più elevato di proteina tau nel cervello rispetto ai partecipanti di sesso maschile, anche in presenza di una storia paterna di Alzheimer.
Questa evidenza suggerisce l’esistenza di interazioni complesse tra la predisposizione genetica ereditata e fattori biologici legati al sesso che potrebbero modulare la patogenesi della malattia e la sua manifestazione nel cervello. Ulteriori ricerche sono necessarie per comprendere appieno i meccanismi sottostanti a questa potenziale vulnerabilità di genere e le sue implicazioni cliniche.
Questo nuovo studio delinea un quadro più complesso dell’influenza genitoriale sull’Alzheimer, evidenziando un potenziale ruolo specifico della storia paterna nell’aumentare la diffusione della proteina tau nel cervello e suggerendo una possibile maggiore suscettibilità delle donne all’accumulo di questa proteina patologica. Queste scoperte aprono nuove prospettive per la ricerca sui fattori di rischio genetici e sulle differenze di genere nell’Alzheimer, con l’obiettivo finale di sviluppare strategie di prevenzione e trattamento più mirate ed efficaci.
Un legame inatteso tra la storia paterna e l’accumulo di tau
Le aspettative iniziali del team di ricerca guidato dalla dottoressa Sylvia Villeneuve, Ph.D., della McGill University di Montreal, in Canada, si sono rivelate inaspettatamente contraddette dai risultati dello studio. Villeneuve ha espresso la sorpresa del gruppo nel constatare una maggiore vulnerabilità alla diffusione della proteina tau nel cervello negli individui con un padre affetto dalla malattia di Alzheimer.
Questa osservazione si discostava dall’ipotesi iniziale, che prevedeva una maggiore incidenza di cambiamenti cerebrali nelle persone con una madre affetta dalla stessa patologia neurodegenerativa. Questa inattesa correlazione suggerisce una potenziale influenza specifica della storia paterna di Alzheimer sui meccanismi patologici sottostanti alla malattia nei figli.
La ricerca ha coinvolto un campione di 243 partecipanti che presentavano una storia familiare di malattia di Alzheimer, definita dalla presenza della patologia in uno o entrambi i genitori o in almeno due fratelli. Un aspetto cruciale della coorte di studio è che, all’età media di 68 anni al momento dell’arruolamento, nessuno dei partecipanti manifestava problemi significativi di pensiero o di memoria, indicando una fase preclinica della malattia o l’assenza di manifestazioni conclamate. Questa selezione ha permesso ai ricercatori di indagare i cambiamenti cerebrali precoci e i potenziali fattori di rischio in individui geneticamente predisposti ma ancora cognitivamente sani.
I partecipanti allo studio sono stati sottoposti a una serie di valutazioni neuropsicologiche e a sofisticate tecniche di neuroimaging, in particolare scansioni cerebrali, sia all’inizio della ricerca che periodicamente durante il periodo di follow-up.
Questo monitoraggio prospettico si è protratto per una media di quasi sette anni, consentendo ai ricercatori di tracciare l’evoluzione dei marcatori biologici dell’Alzheimer, come l’accumulo di proteina tau, e di valutare eventuali cambiamenti nelle funzioni cognitive nel corso del tempo. La durata prolungata dello studio ha fornito dati preziosi per comprendere la progressione della patologia e l’influenza dei fattori genetici, come la storia paterna di Alzheimer, sui processi neurodegenerativi.
L’evoluzione verso il declino cognitivo: un precursore rivelatore
L’analisi dei dati relativi a questo sottogruppo ha corroborato le osservazioni iniziali dello studio. I ricercatori hanno nuovamente riscontrato che gli individui con un padre affetto da Alzheimer presentavano una maggiore diffusione della proteina tau nel loro cervello, anche in questa fase precoce di declino cognitivo. Inoltre, è stata confermata la tendenza osservata nell’intera coorte: le partecipanti di sesso femminile mostravano non solo una maggiore diffusione, ma anche un accumulo complessivamente più elevato di proteina tau nel tessuto cerebrale rispetto ai partecipanti di sesso maschile.
La dottoressa Villeneuve ha sottolineato l’importanza di queste scoperte per il futuro della prevenzione e del trattamento dell’Alzheimer. Una comprensione più approfondita delle specifiche vulnerabilità associate alla storia genitoriale, in particolare alla paternità affetta dalla malattia, e al genere sessuale potrebbe aprire la strada alla progettazione di interventi terapeutici e strategie di prevenzione personalizzate. L’obiettivo è quello di sviluppare approcci mirati che tengano conto del profilo di rischio individuale, contribuendo così a proteggere in modo più efficace le persone dalla progressione verso la malattia di Alzheimer.
È fondamentale riconoscere un’importante limitazione dello studio condotto: la maggioranza dei partecipanti era di etnia caucasica. Questa prevalenza di un singolo gruppo etnico solleva interrogativi sulla generalizzabilità dei risultati ad altre popolazioni con diverse origini genetiche e background ambientali. Pertanto, i ricercatori stessi riconoscono la necessità di condurre ulteriori studi su coorti più ampie e diversificate al fine di confermare e ampliare queste promettenti scoperte e di garantire che le future strategie di intervento siano efficaci per tutti i gruppi di popolazione a rischio di malattia di Alzheimer.
Lo studio è stato pubblicato su Neurology.