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NotiziaScienza

L’universo è per pochi? Astronomia UK sempre meno inclusiva

Nel Regno Unito, astronomia e geofisica stanno diventando sempre meno inclusive. Ecco cosa rivela il nuovo report RAS 2025 e perché la diversity è in crisi.

Massimo 12 ore fa Commenta! 6
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La scienza guarda lontano, ma dentro casa sua vede sempre le stesse facce. Letteralmente. L’ultima indagine della Royal Astronomical Society (RAS), presentata a luglio 2025, lancia un messaggio chiaro: astronomia e geofisica nel Regno Unito stanno diventando sempre meno diverse, sotto ogni punto di vista. Altro che inclusione.

Contenuti di questo articolo
I numeri non mentono (purtroppo)Anche la parità di genere si inceppaTanti sforzi, pochi risultatiMa allora… perché succede?Non è un problema solo britannicoE adesso?

I numeri non mentono (purtroppo)

Lo studio, basato su dati 2023, mostra che il numero di persone che lavorano nell’astronomia e nelle scienze del sistema solare è aumentato. Ma non è tutto oro quello che luccica (nemmeno tra le stelle). A fronte di una crescita numerica, la rappresentanza etnica e di genere peggiora.

Nel 2022, circa l’80% degli studenti che hanno iniziato un corso universitario in astronomia o geofisica nel Regno Unito era bianco. Ok, un dato in linea con la popolazione generale del paese (83%), ma già qui si vede quanto la diversity sia solo una parola di moda nei documenti istituzionali.

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Il vero problema, però, emerge nei ruoli stabili e senior: il 97% del personale permanente britannico in questi settori è bianco. Un aumento rispetto al 95% del 2016. In pratica, più si sale nella carriera accademica, più si sbianca il panorama.

E tra i dottorandi? Stessa musica: tra quelli di nazionalità britannica (circa il 70% del campione), il 92% si identifica come bianco, in crescita rispetto all’87% di appena sette anni prima. Altro che inversione di tendenza.

Anche la parità di genere si inceppa

C’è un altro dato che fa riflettere: la rappresentanza femminile. Dal 2010 al 2023, il numero di donne in ruoli senior (professoresse, lettrici, ricercatrici di alto livello) è cresciuto nell’ambito astronomico. Bene, no?

Peccato che da otto anni a questa parte sia tutto fermo a livello “lecturer” (una sorta di ricercatrice strutturata) e che, nel campo della geofisica “solid Earth” – cioè quella che studia la Terra sotto i nostri piedi, dalla crosta fino al nucleo – la percentuale di donne sia scesa al 19%.

Serve un quadro ancora più chiaro? Nei ruoli più junior, le donne sono il 28% dei postdoc in astronomia e il 34% in geofisica del sottosuolo. Non male, ma il collo di bottiglia arriva subito dopo. Perché quelle percentuali non si traducono in carriera.

Tanti sforzi, pochi risultati

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L’ammissione di colpa arriva dalla stessa Royal Astronomical Society. Dopo decenni di iniziative per aumentare la rappresentanza – borse dedicate, campagne, mentoring – il sistema non è cambiato abbastanza. O, meglio, è cambiato nella direzione sbagliata.

“La verità è che gli sforzi fatti finora hanno fallito”, si legge nel rapporto. E Robert Massey, vicedirettore esecutivo della RAS, lo dice senza giri di parole:

“Voglio vedere molte più donne e persone di gruppi etnici minoritari lavorare come astronomi e geofisici. Dobbiamo raddoppiare gli sforzi per farlo accadere.”

Il problema è che non basta volerlo. Se le università non rivedono i processi di reclutamento, se i finanziamenti restano distribuiti in modo diseguale, e se chi si occupa di outreach e inclusione è sempre lo stesso piccolo gruppo di volontari idealisti, i risultati non cambieranno mai.

Ma allora… perché succede?

È una domanda che si pongono in tanti. Perché, nonostante le campagne, le “Giornate delle donne nella scienza” e i programmi per studenti svantaggiati, la situazione peggiora?

Una risposta potrebbe essere la struttura stessa del mondo accademico, dove le reti di relazioni contano più dei CV, e i bias inconsci (e non solo) influenzano chi viene promosso, assunto o finanziato.

C’è poi una questione di accesso. Se i corsi universitari sono frequentati da una base già poco diversa, è normale che la filiera si stringa sempre di più man mano che si sale. E i dati lo dicono: gli studenti minoritari non arrivano nemmeno in aula, o se ci arrivano, mollano prima.

Non è un problema solo britannico

Anche se i dati riguardano il Regno Unito, il tema tocca tutte le comunità scientifiche occidentali. Basti pensare a quanto sia raro vedere persone nere o latine nei laboratori di astrofisica negli Stati Uniti o a quanto siano sottorappresentate le donne nei dipartimenti di geoscienze in Europa.

Il punto non è solo “fare inclusione” perché fa bello nelle brochure. Il punto è che una scienza più diversa è una scienza migliore. Più creativa, più equa, più completa. Perché idee nuove arrivano solo da punti di vista diversi.

E adesso?

Le soluzioni non sono semplici, ma nemmeno impossibili. Serve ripensare i percorsi accademici, riformare i criteri di valutazione, creare spazi sicuri per chi entra da outsider. E soprattutto smettere di trattare la diversity come una questione da “gruppo di lavoro”, ma come una priorità sistemica.

Finché l’astronomia resterà bianca e maschile, continueremo a perdere talenti, idee e prospettive. E questo, per una scienza che vuole comprendere l’universo, è il peggior paradosso possibile.

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