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Scienza

Locatio ventris: quando, nell’antica Roma, la maternità surrogata non aveva implicazioni etiche

Se oggi la maternità surrogata accende dibattiti etici e legali, l'antica Roma, nella sua pragmatica ricerca di continuità familiare, conosceva già un precursore: la locatio ventris. Questo concetto, letteralmente "affitto dell'utero", rivela una realtà dove la donna, talvolta la sposa stessa, metteva a disposizione il proprio ventre non per scelta personale, ma per imperativo sociale e dinastico

Denise Meloni 8 ore fa Commenta! 13
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Nell’antica Roma, il concetto di “locatio ventris” emerge da diverse testimonianze letterarie e giuridiche, sebbene non si configuri come un istituto giuridico formalizzato paragonabile alla moderna maternità surrogata. Il suo significato letterale, “affitto dell’utero” o “locazione del ventre”, descrive la pratica per cui una donna, spesso la moglie o una schiava, metteva a disposizione il proprio corpo per la procreazione di figli per conto di un’altra persona o coppia che desiderava avere prole.

Contenuti di questo articolo
La locatio ventris nell’antica Roma: un’analisi dettagliataIl principio fondamentale del “partus sequitur ventrem”La donna e la procreazione al servizio della gens
Locatio ventris: quando, nell'antica roma, la maternità surrogata non aveva implicazioni etiche

La locatio ventris nell’antica Roma: un’analisi dettagliata

La motivazione predominante alla base di questa pratica era l’impellente necessità di assicurare la continuità del lignaggio familiare, la gens, e la trasmissione dell’eredità, un’esigenza sentita con particolare urgenza per la procreazione di eredi maschi. In una società dove la discendenza diretta e il culto degli antenati costituivano pilastri fondamentali dell’identità e dello status, la sterilità o l’incapacità di generare prole erano percepite non solo come una sventura personale, ma talvolta anche come una maledizione o un’infrazione dell’ordine sociale. Questo contesto culturale spingeva a cercare soluzioni alternative per garantire la perpetuazione del nome e del patrimonio familiare.

A differenza della maternità surrogata contemporanea, che spesso coinvolge l’impianto di embrioni in vitro, la locatio ventris nell’antica Roma si basava esclusivamente su rapporti sessuali. Non si trattava di un contratto di “affitto” nel senso moderno del termine, con obblighi e diritti ben definiti a livello legislativo, ma piuttosto di un accordo, la cui formalità poteva variare da un’intesa informale a una convenzione più strutturata. Queste intese potevano assumere diverse forme a seconda dello status della donna coinvolta.

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Una delle manifestazioni più singolari era la “cessione della moglie”. In rari casi, un marito che aveva già avuto figli e la cui moglie era ancora fertile, poteva decidere di “cederla” temporaneamente a un amico o a un parente privo di prole, con l’esplicito intento di permettere a quest’ultimo di generare un erede.

Locatio ventris: quando, nell'antica roma, la maternità surrogata non aveva implicazioni etiche

Un esempio storico, sebbene soggetto a diverse interpretazioni e dibattiti tra gli storici, è quello di Catone il Giovane, che avrebbe temporaneamente “ceduto” sua moglie Marzia a Quinto Ortensio Ortalo, per poi riprenderla dopo la morte di quest’ultimo. È cruciale comprendere che, in tali circostanze, la donna era considerata quasi uno strumento per la procreazione, e per la legalità dell’unione con il secondo uomo, il matrimonio originario doveva essere formalmente sciolto.

Un’altra prassi comune coinvolgeva le schiave. Era frequente che i padroni di casa, e gli uomini in generale, avessero figli con le proprie schiave. Se il padrone desiderava che la prole nata da una schiava fosse riconosciuta legalmente come sua e integrata nella famiglia, poteva scegliere di manomettere la schiava (liberarla) e successivamente sposarla.

Locatio ventris: quando, nell'antica roma, la maternità surrogata non aveva implicazioni etiche

In alternativa, poteva semplicemente riconoscere i figli nati da lei, sebbene lo status giuridico di tali figli fosse complesso e spesso dipendente dallo status della madre. In questi scenari, la schiava era a disposizione per la procreazione e, in base al principio “partus sequitur ventrem” (il figlio segue il ventre), i figli acquisivano lo status di schiavi se la madre era tale, a meno di specifici atti di manumissione o riconoscimento paterno.

Il principio fondamentale del “partus sequitur ventrem”

Dal punto di vista strettamente giuridico, la “locatio ventris” non trovava una regolamentazione specifica nel diritto romano che la potesse equiparare a un contratto di locazione nel senso moderno del termine. Il sistema legale romano era caratterizzato da una chiarezza inequivocabile riguardo al principio “partus sequitur ventrem”, ovvero “il figlio segue il ventre” della madre. Questo significa che lo status giuridico del bambino, sia esso libero o schiavo, dipendeva invariabilmente dallo status della donna che lo aveva partorito al momento della nascita. Il bambino era, senza eccezioni, considerato legalmente figlio della donna che lo aveva dato alla luce.

Questo principio fondamentale del diritto romano aveva implicazioni profonde e rendeva estremamente difficile, se non del tutto impossibile, che un figlio nato da una pratica di “locatio ventris” fosse automaticamente riconosciuto come figlio legale della coppia “committente”. Senza l’implementazione di ulteriori atti giuridici specifici, come l’adozione o il riconoscimento formale da parte del padre, il bambino rimaneva legalmente legato alla madre biologica.

Locatio ventris: quando, nell'antica roma, la maternità surrogata non aveva implicazioni etiche

Il principio giuridico romano del “partus sequitur ventrem” – letteralmente “il figlio segue il ventre” – non era una mera disposizione normativa, ma rifletteva una concezione profondamente radicata del legame materno biologico come unico e inequivocabile determinante dello status giuridico di un nascituro. Questo assioma, fondamentale per la struttura familiare e sociale romana, mette in luce una prospettiva sulle pratiche riproduttive e sulle normative familiari che si discosta significativamente dalle concezioni giuridiche e sociali moderne.

Nell’antica Roma, la questione dello status giuridico – se un individuo fosse libero ( liber ) o schiavo ( servus ) – era di capitale importanza e definiva l’intero percorso di vita di una persona, influenzando diritti, doveri e possibilità sociali. Il principio “partus sequitur ventrem” stabiliva con assoluta chiarezza che lo status del bambino era direttamente derivato da quello della madre al momento del parto. Se la madre era una schiava, il figlio nasceva schiavo, indipendentemente dalla condizione del padre o da eventuali accordi presi prima della nascita.

Allo stesso modo, se la madre era una donna libera, il figlio nasceva libero. Questa semplicità, apparentemente brutale, garantiva una certezza giuridica in un’epoca in cui le analisi di paternità erano inesistenti e i legami di sangue venivano definiti in base alla visibilità e all’evidenza biologica.

Locatio ventris: quando, nell'antica roma, la maternità surrogata non aveva implicazioni etiche

Tale approccio sottolineava la preminenza del vincolo biologico materno sulla volontà o sulle intenzioni delle parti coinvolte in pratiche come la locatio ventris. Per quanto una coppia potesse desiderare un figlio e accordarsi con una donna affinché lo partorisse, il diritto non riconosceva automaticamente il nascituro come proprio se la madre biologica non era la mater familias legittima. Questo significava che, per il riconoscimento legale di un figlio nato in tali circostanze da una donna non liberamente sposata o non schiava del pater familias in questione, erano necessari ulteriori atti giuridici complessi, come l’adozione, che trasferiva formalmente la patria potestà, o un riconoscimento paterno che poteva avere effetti limitati sullo status.

Il “partus sequitur ventrem” contrasta nettamente con le moderne concezioni giuridiche sulla famiglia e sulla maternità surrogata. Oggi, in molte giurisdizioni, il legame intentivo (l’intenzione dei genitori committenti di crescere il bambino) e gli accordi contrattuali giocano un ruolo cruciale nella definizione della filiazione, spesso superando il principio biologico della nascita.

Le moderne tecniche di riproduzione assistita, come la fecondazione in vitro e la maternità surrogata gestazionale, permettono di distinguere la madre genetica (che fornisce l’ovulo) dalla madre gestazionale (che porta avanti la gravidanza) e dai genitori sociali (che cresceranno il bambino). Il diritto contemporaneo si è evoluto per dare riconoscimento a queste diverse forme di genitorialità, spesso assegnando la filiazione ai genitori d’intenzione fin dalla nascita, attraverso contratti validati legalmente.

Locatio ventris: quando, nell'antica roma, la maternità surrogata non aveva implicazioni etiche

La rigidità del principio romano, che poneva la nascita dal ventre come unico criterio di partenza per lo status, evidenzia una società dove il corpo della donna era visto in funzione della procreazione per la continuità del pater familias e della gens, ma dove i meccanismi di attribuzione della filiazione legale erano profondamente legati alla realtà biologica evidente del parto, con poche eccezioni o deviazioni contrattuali dirette. Questo ci permette di comprendere non solo le specifiche normative dell’epoca, ma anche la visione etica e sociale che sottostava all’organizzazione della famiglia nell’antica Roma.

La donna e la procreazione al servizio della gens

La pratica della “locatio ventris” nell’antica Roma è una vivida espressione di una concezione della donna e della procreazione che differiva profondamente dalle sensibilità moderne. In questo contesto storico e culturale, il corpo femminile poteva essere considerato, in determinate circostanze e in modo pragmatico, una vera e propria risorsa strategica per il benessere e la continuità della famiglia patriarcale. Questa visione non era dettata da una perversione, ma da una logica intrinseca a una società dove la sopravvivenza del lignaggio (la gens) e il mantenimento del potere e dell’eredità del pater familias erano priorità assolute.

A differenza della nostra epoca, che tende a valorizzare l’autonomia individuale e il diritto all’autodeterminazione, l’antica Roma subordinava spesso l’individuo agli interessi superiori della famiglia e dello Stato. In questo quadro, la capacità procreativa della donna non era primariamente un attributo personale o un diritto individuale, ma una funzione essenziale per la perpetuazione della linea familiare.

Locatio ventris: quando, nell'antica roma, la maternità surrogata non aveva implicazioni etiche

Se la moglie legittima non riusciva a generare eredi, o se la gens necessitava di un incremento numerico per rafforzare la propria posizione sociale o politica, la locatio ventris (nelle sue varie manifestazioni, inclusa la relazione con schiave o la “cessione” della moglie) offriva una soluzione concreta e, in un certo senso, “efficiente”. La donna, in questo scenario, diveniva il mezzo attraverso il quale il pater familias poteva raggiungere i suoi obiettivi di discendenza, anche se ciò implicava una gestione del suo corpo che oggi considereremmo inaccettabile.

L’esistenza stessa della locatio ventris è un chiaro esempio della pragmatica e, a volte, spregiudicata gestione delle dinamiche familiari e sociali nell’antica Roma. Le decisioni in merito alla procreazione, ai matrimoni e alle relazioni erano raramente dominate da sentimenti romantici o da ideali di parità, ma erano quasi sempre orientate alla salvaguardia degli interessi superiori della gens e del pater familias. Questo significava che, pur di assicurare un erede, evitare l’estinzione della famiglia o acquisire alleanze strategiche, si potevano adottare soluzioni che a noi sembrano estreme o moralmente discutibili.

Locatio ventris: quando, nell'antica roma, la maternità surrogata non aveva implicazioni etiche

La procreazione non era solo una questione privata, ma un atto con profonde implicazioni sociali, economiche e politiche. Un figlio maschio garantiva la continuazione del nome, la trasmissione del patrimonio e la possibilità di ricoprire cariche pubbliche, elementi vitali per lo status e l’influenza della famiglia. In questo contesto, la locatio ventris non era un’aberrazione, ma una manifestazione di una mentalità che privilegiava la funzionalità e l’utilità sociale sopra ogni altra cosa, rivelando la complessa e spesso rigida struttura gerarchica che governava la vita nella Roma antica.

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