L’Amazzonia, il polmone verde del pianeta, non è più così invincibile. Nuove ricerche mostrano che la foresta tropicale più vasta del mondo si sta avvicinando a un punto di non ritorno, dove potrebbe trasformarsi in un ambiente simile a una savana, secco e meno ricco di biodiversità.
Non è fantascienza, ma il risultato di simulazioni scientifiche pubblicate sulla rivista Geophysical Research Letters. Uno scenario che dovrebbe accendere più di un campanello d’allarme, perché senza Amazzonia non solo perderemmo una delle aree naturali più straordinarie del pianeta, ma anche uno scudo vitale contro la crisi climatica.
La ricerca: quando la foresta collassa
Un team di scienziati europei ha usato modelli al computer per capire come la foresta reagirebbe a deforestazione e riscaldamento globale. L’Amazzonia copre circa 5,5 milioni di km², una distesa impressionante che da sola produce una parte cruciale dell’ossigeno terrestre e assorbe miliardi di tonnellate di CO₂.
Eppure i dati parlano chiaro:
- Basta una riduzione del 10% delle precipitazioni provenienti dall’Atlantico per destabilizzare il sistema.
- Oppure un livello di distruzione superiore al 65% della superficie per spingere la foresta in una spirale irreversibile verso un ecosistema “savana-like”.
Andrew Friend, professore dell’Università di Cambridge e coautore dello studio, lo ha detto senza mezzi termini: «Siamo ragionevolmente sicuri che una trasformazione sia possibile. La vera domanda è quale livello di deforestazione e cambiamento climatico farà scattare il collasso».
Deforestazione: un crimine ambientale globale

Negli ultimi anni la deforestazione in Brasile ha avuto alti e bassi, ma il bilancio resta drammatico. Secondo i dati, l’area disboscata equivale a sei volte la superficie di New York City.
Durante la presidenza Bolsonaro il taglio della foresta è accelerato, favorito da politiche permissive verso l’agricoltura intensiva e l’estrazione di legname. Ma non è solo un problema brasiliano. In Perù, Colombia e Bolivia si continuano a disboscare ampie zone per coltivazioni, pascoli e infrastrutture.
La foresta amazzonica non conosce confini politici, eppure la sua sorte viene decisa dai governi locali e dalle pressioni globali del mercato.
Clima e politica: un mix letale
Anche se i governi sudamericani riuscissero a fermare completamente la deforestazione, c’è un altro nemico da affrontare: il riscaldamento globale.
Secondo gli scienziati, superare l’aumento di 1,5 °C rispetto ai livelli preindustriali — la soglia stabilita negli accordi internazionali — significherebbe esporre l’Amazzonia a un rischio ancora maggiore di collasso.
La realtà è che politica ed economia giocano un ruolo enorme. Ridurre la deforestazione significa scontrarsi con interessi agricoli e industriali potentissimi. Limitare il riscaldamento globale significa tagliare drasticamente le emissioni di CO₂, un obiettivo che i Paesi sviluppati faticano a rispettare.
In questo intreccio, la foresta rischia di diventare vittima di compromessi, ritardi e promesse non mantenute.
Perché la perdita dell’Amazzonia è un problema per tutti

L’Amazzonia è spesso chiamata il “polmone del mondo”, ma la definizione non rende pienamente giustizia al suo ruolo. La foresta non si limita a produrre ossigeno:
- Regola i cicli idrici dell’intero continente sudamericano, influenzando piogge e agricoltura a migliaia di chilometri di distanza.
- Assorbe enormi quantità di CO₂, funzionando come banco di carbonio naturale.
- È l’habitat di circa 10% delle specie viventi conosciute, molte delle quali ancora da catalogare.
Perdere l’Amazzonia significherebbe accelerare il cambiamento climatico, ridurre la biodiversità globale e alterare l’equilibrio idrico planetario.
Un futuro da savana
Cosa significa concretamente la trasformazione in savana? Non si tratta di un deserto, ma di un paesaggio molto meno rigoglioso, con alberi radi, erba alta e un ecosistema meno complesso.
Rispetto alla foresta pluviale, una savana ha:
- minore capacità di assorbire carbonio;
- minore biodiversità;
- cicli idrici più instabili, con stagioni secche più lunghe e devastanti.
Insomma, sarebbe un mondo più povero, fragile e meno ospitale, non solo per le popolazioni indigene e gli animali che la abitano, ma per l’intero pianeta.
Cosa si può fare
Il messaggio degli scienziati è chiaro: abbiamo un orizzonte di 10-20 anni per invertire la rotta. Due sono i fronti principali:
- Ridurre drasticamente la deforestazione, soprattutto quella illegale.
- Tagliare le emissioni globali, per contenere l’aumento delle temperature.
Non è un compito che riguarda solo i governi sudamericani. Il consumo globale di carne, soia, olio di palma e legname alimenta la distruzione della foresta. Le nostre scelte quotidiane, dall’alimentazione agli investimenti, hanno un impatto diretto.
Andrew Friend lo ha detto con una certa durezza: «Sarebbe imprudente pensare che la foresta possa resistere comunque. Potremmo sbagliarci nelle stime, ma scommettere sulla resilienza dell’Amazzonia è troppo rischioso».
Una corsa contro il tempo
La verità è che il tipping point non è un concetto astratto: è una soglia che, una volta superata, rende impossibile tornare indietro. Non ci sarà un allarme chiaro, nessun cartello che dice “oltre questo punto la foresta muore”.
Il collasso sarà graduale, invisibile a chi vive lontano, ma devastante negli effetti globali. Ogni anno di ritardo rende la transizione più vicina.
La sfida è enorme, ma non impossibile: la riduzione della deforestazione registrata nell’ultimo anno in Brasile dimostra che le politiche giuste possono funzionare. La domanda è: saremo abbastanza veloci da salvare l’Amazzonia prima che diventi una savana?
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