Immaginiamo per un momento di trovarci imprigionati nel nostro corpo, coscienti e vigili, ma incapaci di muovere un braccio o di sentire la carezza di un oggetto tra le dita, un’esperienza che va oltre l’immaginabile, dove prigionia fisica e libertà mentale coesistono, ma non si incontrano, soprattutto se non vi è un impianto cerebrale a supporto.
Per molte persone colpite da lesioni al midollo spinale (che causano paralisi) o da gravi danni neurologici, questo è lo scenario quotidiano, eppure la frontiera delle neuroscienze e dell’ingegneria ha compiuto un passo che fino a pochi anni fa sembrava di puro racconto di fantascienza: restituire movimento e persino sensazione a un uomo che non poteva né muovere né sentire le mani.

La storia di cui parliamo ruota attorno all’esperimento condotto presso il Feinstein Institutes for Medical Research a Long Island, New York, in cui il paziente principale, Keith Thomas, rimasto paralizzato dal torace in giù in seguito a un incidente nel 2020, è riuscito a recuperare l’uso e la sensibilità della mano grazie a un impianto cerebrale associato a una tecnologia denominata “by-pass neurale doppio”.
Ma c’è un’altra svolta, la più recente fase dell’esperimento non si è limitata a far muovere la sua propria mano, bensì ha permesso a Thomas di controllare la mano di un’altra persona, agire su oggetti tramite quella mano “esterna” e – ancora più sorprendente – di percepire cosa quell’altra mano stava toccando. In altre parole un uomo paralizzato che, attraverso il proprio cervello, manipola e sente oggetti usando le mani di un’altra persona.
È a quel punto che ci troviamo davanti a una congiunzione di tecnologie, neuroscienza, robotica, intelligenza artificiale (IA) e questioni etiche che meritano di essere raccontate.
Cosa significa “by-pass neurale doppio” in questo impianto cerebrale
Ecco il nucleo tecnico dell’esperimento, ed è qui che entriamo in territorio più tecnico, il termine “by-pass neurale doppio” sta a indicare che, in questo impianto cerebrale, sono state implementate due vie di comunicazione:
- una via motoria, che raccoglie (attraverso microelettrodi nell’impianto cerebrale) l’intenzione del paziente di muovere la mano, la decodifica tramite algoritmi di IA e la trasmette a stimolatori che agiscono sulla muscolatura (o sui nervi periferici) della mano stessa o di un arto equivalente;
- una via sensoriale, che raccoglie l’informazione tattile (pressione, contatto) da sensori posti sulla mano o su un arto, o tramite stimolazione diretta, e la trasmette al cervello del paziente sotto forma di segnali che il cervello interpreta come sensazione. Anche questa via richiede microelettrodi impiantati nell’impianto cerebrale.

Nel caso specifico di Thomas, è stato possibile non soltanto far muovere la sua mano ma anche usare quella di un altro soggetto, attraverso un’interfaccia che connetteva intellettualmente il suo cervello al braccio/tipo di mano “avatar” di una persona collaboratrice.
In pratica, Thomas pensava «afferra la bottiglia», e la mano dell’altra persona (collegata alla stessa interfaccia) afferrava la bottiglia; e in più Thomas riceveva la sensazione del contatto e poteva descrivere l’oggetto.
Questo tipo di sistema di impianto cerebrale potrà sembrare futuristico – e lo è in parte – ma rappresenta una progressione naturale delle ricerche sulle interfacce cervello-computer: dai semplici cursori controllati col pensiero, alle braccia robotiche comandate col pensiero, fino a oggi, a mani “remote” controllate e sensibili.
Perché è una svolta e quali sono le implicazioni
Ci sono diversi motivi per cui questo esperimento merita particolare attenzione, e ciascuno ha un risvolto tecnico, medico e filosofico.
1. Movimento + sensibilità
Molte delle tecnologie precedenti riuscivano a permettere a pazienti paralizzati di muovere arti robotici o stimolati elettricamente, ma difficilmente ricostruivano la sensazione tattile, restituire la capacità di sentire – ad esempio distinguere un oggetto liscio da uno ruvido – è assai più complesso.
Grazie a questo impianto cerebrale, la sensazione è tornata, seppur in forma sperimentale, e ciò rappresenta un salto rispetto a molte ricerche antecedenti.
2. Utilizzo esterno della mani di altri
L’aspetto “usare le mani di un altro” cambia anche la dinamica: non soltanto riabilitazione dell’arto proprio, ma collaborazione tra soggetti.
Thomas ha controllato la mano di un’altra persona, che a sua volta aveva difficoltà motorie, per compiere compiti reali, questo apre scenari nuovi: non solo “ripristino personale”, ma “aiuto reciproco” in cui il paziente diventa agente attivo di un’azione reale.

3. Verso autonomia reale
Anche se siamo ancora in una fase sperimentale, la prospettiva è quella di fornire a persone paralizzate la possibilità di compiere atti quotidiani che vanno ben oltre “muovere un dito”: afferrare un bicchiere, versarsi da bere, toccare il pelo di un cane, come nel caso di Thomas.
Il valore è umano oltre che tecnico.
4. Questioni etiche e sociali
Naturalmente, emergono questioni: sicurezza dell’impianto cerebrale, durata nel tempo, compatibilità, costo, accessibilità, ma anche implicazioni più profonde sul concetto di identità corporea (“la mano che uso è la mia o è dell’altro?”), sulla collaborazione tra umano e macchina, e sul futuro rapporto uomo-macchina.
Come giusto che sia non posso non segnalare che siamo ancora nella fase sperimentale, non si tratta di “tutti i paralizzati torneranno in piedi” domani, restano problemi di scala, costo, sicurezza, personalizzazione dell’impianto, durata nel tempo, accesso globale.
Nondimeno l’interfaccia è complessa, richiede addestramento, e rischi chirurgici esistono, tanto che i ricercatori stessi sottolineano che non è ancora una soluzione generale, ma una prova di principio di straordinaria valenza.
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