L‘affaire del buco dell’Ozono nel 2020 torna a far parte in questi giorni delle notizie divulgate dalle riviste scientifiche, ma non solo. Protagonista assoluto delle preoccupazioni sollevate dagli scienziati in merito al futuro dell’umanità sin dagli anni ’70, grazie ad una campagna di sensibilizzazione a livello scientifico e politico il fenomeno cominciò ad essere seguito e monitorato già dai primi anni ’80 del novecento.
Le ultime rilevazioni, eseguite dal satellite Sentinel-5P dell’ESA, non sono molto confortanti: pare che l’estensione abbia raggiunto un’area di circa 25 milioni di km quadrati, in pratica una cosa come Russia e Australia messe insieme. Un’estensione così ampia non veniva raggiunta dal 2015, e non solo: il 2 ottobre il buco dell’Ozono ha toccato anche la sua massima profondità.
Il buco dell’Ozono nel 2020 è ai massimi livelli: ma da quando parte l’emergenza?
Il fenomeno della perdita dell’Ozono nella bassa stratosfera sotto l’Antartide fu notato per la prima volta negli anni ’70 da un gruppo di ricercatori della British Antarctic Survey (BAS) che stavano monitorando l’atmosfera intorno all’Antartico da una stazione di ricerca.
Dopo le prime rilevazioni e i dati preoccupanti da esse scaturite, se ne dedusse che la produzione industriale e il ricorso a sostanze come i clorofluorocarburi (CFC) – presenti non solo a livello industriale ma in molti prodotti di uso quotidiano prodotti in milioni di unità, come la lacca per capelli, tanto per citare l’esempio più lampante – stavano distruggendo l’ozono stratosferico. Venne così deciso, nel 1987 con il Protocollo di Montréal, di eliminare progressivamente l’utilizzo di tali sostanze, così da poter ottenere una tendenza inversa a quando accaduto fino ad allora.
Sono state fatte, ovviamente, nel corso degli anni e soprattutto negli anni ’90 alcune integrazioni e specifiche sugli accordi, come ad esempio il controllo della produzione industriale di molti idrocarburi almeno fino all’anno 2030. Il principale CFC non è stato più prodotto già dal 1995, a parte per una piccola parte destinata a prodotti essenziali, come gli spray utilizzati in ambito medico/sanitario.
Secondo gli scienziati, con i ritmi attuali si potrà arrivare alla “completa guarigione” di quella che viene definita come una vera e propria ferita dell’atmosfera terrestre, solamente nel 2050. Dall’ultimo rapporto della WMO del 2018 si stima invece un ritorno alle condizioni normali (cioè ai livelli precedenti agli anni ’80) entro il 2060.
Ma ovviamente non è solo l’intervento umano che ha inciso su questo fenomeno: il buco dell’ozono si espande e si ritira anche per variazioni annuali, legate più che altro all’intensità dei venti polari, che dipendono dalla rotazione terrestre e dalla differenza di temperatura tra le latitudini polari e le medie latitudini. Inoltre temperature molto basse (parliamo di valori che si aggirano sui -78°C) favoriscono la formazione di nuvole stratosferiche che, per effetto delle radiazioni solari, innescano più facilmente le reazioni delle sostanze chimiche presenti nella stratosfera, come ad esempio cloro e bromo, notoriamente in grado di erodere lo strato di ozono.
Non solo inquinamento e surriscaldamento terrestre insomma, sarebbero la causa della notevole espansione del buco dell’ozono registrata quest’anno dal satellite Sentinel-5P, – dove “P” sta per “Precursor”, facente parte di un più ampio programma che l’ESA attua per il monitoraggio dell’atmosfera terrestre e dell’inquinamento dell’Unione Europea – Il programma evidenzia tra le altre cose che: “ogni anno nella sola Europa muoiono prematuramente circa 400.000 persone per patologie correlate all’inquinamento dell’aria“.
Insomma, risulta chiaro che il delicato equilibrio che permette la vita così come la conosciamo sulla Terra è una questione che non può essere affrontata a compartimenti stagni, ma è necessario che tutti gli “addetti ai lavori”, uniscano conoscenze, competenze e soluzioni per affrontare propositivamente una questione che, sebbene, sopita, non ha mai smesso di influire sulla salute di tutto il pianeta.
Dopo una sorta di “pausa” in positivo e le clamorose rivelazioni durante il lockdown dei primi mesi del 2020 in cui sembrava che “magicamente” si fosse tornati indietro di decenni, l’espansione del buco dell’ozono nel 2020 assomiglia molto a quella del 2018, una situazione che fu definita all’epoca una delle più gravi.
Vincent-Henri Peuch, direttore del Copernicus Atmosphere Monitoring Service all’ECMWF spiega che: “Dopo l’anomalo buco dell’ozono del 2019, molto piccolo e meno duraturo a causa condizioni meteorologiche eccezionali, quest’anno stiamo registrando un buco dell’ozono decisamente più esteso, a conferma dell’importanza di continuare a far rispettare il Protocollo di Montrèal“.