Secondo un nuovo studio del Netherlands Institute for Neuroscience, le persone con depressione hanno meno cellule microgliali attive. Il documento è stato pubblicato sulla rivista Biological Psychiatry.
Depressione: cosa significa avere meno cellule microgliali attive
La depressione contribuisce in modo significativo al carico globale di malattia e una delle principali cause di disabilità in tutto il mondo. Sono urgentemente necessarie informazioni sulla patofisiologia della malattia e nuove terapie, poiché la resistenza al trattamento è comune e si verifica fino al 30% dei pazienti. Precedenti ricerche hanno mostrato che i pazienti con depressione hanno livelli alterati di marcatori infiammatori.
Inoltre, la depressione è stata collegata a malattie infiammatorie croniche, come reumatismi, malattie infiammatorie intestinali e sclerosi multipla. Questi risultati suggeriscono che l’infiammazione del cervello può svolgere un ruolo nella depressione. Ma è vero?
Un nuovo studio di Karel Scheepstra e del suo team, supervisionato da Inge Huitinga e Jörg Hamann, ha esaminato il tessuto cerebrale umano post mortem di persone con depressione. Questo tessuto cerebrale proviene da donatori recentemente deceduti che hanno donato i loro cervelli alla Dutch Brain Bank for Psychiatry (NHB-Psy).
E cosa hanno trovato? Un certo tipo di cellule immunitarie nel nostro cervello, chiamate cellule microgliali, sono meno attive nelle persone con depressione. Contrariamente alle aspettative, in realtà si verifica l’opposto dell’infiammazione: le cellule immunitarie vengono soppresse.
Le cellule microgliali sono importanti perché mantengono i punti di contatto tra i neuroni (sinapsi), aiutando così i neuroni a comunicare in modo efficiente tra loro. Inoltre, le cellule microgliali scansionano costantemente il sistema nervoso centrale alla ricerca di neuroni, sinapsi e agenti patogeni danneggiati. Nei campioni di persone con depressione, solo le cellule microgliali vicino ai neuroni hanno mostrato un’attività ridotta.
Il team ha quindi studiato se i neuroni inviano segnali alle cellule microgliali durante la depressione, rendendole meno attive. E questo in effetti si è rivelato essere il caso.
Karel Scheepstra (ricercatore coinvolto nello studio e che lavora anche come psichiatra presso l’UMC di Amsterdam) afferma: “Durante lo studio abbiamo utilizzato tessuto fresco immediatamente dopo la morte per isolare le microglia e confrontarle tra persone depresse e controlli. Abbiamo visto microglia anomala nei pazienti depressi , con le maggiori anomalie osservate nei pazienti che erano più depressi appena prima della morte.”
“È interessante notare che le anomalie sono state osservate solo nella materia grigia e non nella materia bianca del cervello. Ciò suggerisce che esiste una probabile interazione tra la microglia e le strutture situate nella materia grigia : i neuroni e le sinapsi”.
“Abbiamo anche esaminato il tipo di alterazioni. Abbiamo ipotizzato per anni che la depressione sia associata all’infiammazione del cervello, ma ora stiamo vedendo esattamente l’opposto: non la neuroinfiammazione, ma piuttosto un tipo di microglia immunosoppresso. Abbiamo le abbiamo definite “microglia depresse” e ci siamo chiesti come sia possibile esattamente questo. Le proteine CD200 e CD47 si trovano nelle cellule cerebrali e nelle sinapsi”.
“Interagiscono con la microglia e sono, per così dire, una sorta di ‘segnale di non mangiarmi’. Quello che abbiamo visto è che queste proteine erano elevate, con conseguente soppressione della microglia, impedendo così loro di eliminare le connessioni danneggiate”.
“Si pensa che la depressione abbia qualcosa a che fare con un cambiamento nella neuroplasticità: la capacità di creare nuove connessioni tra i neuroni. Un antidepressivo relativamente nuovo è l’esketamina, un farmaco che interviene in questo processo e assicura che più connessioni ricomincino a crescere. In questo studio, dimostriamo che esiste un’interazione neurone-microglia disturbata. Il prossimo passo sarebbe vedere quali sono esattamente le conseguenze della microglia inattiva per il mantenimento e la formazione di connessioni tra i neuroni”.
“Se sappiamo dove le cose vanno male nel processo, questo può fornire bersagli per nuovi farmaci. Possiamo rendere queste microglia di nuovo più attive? E che effetto ha questo sul decorso della malattia? Per ora, abbiamo dimostrato che il i cervelli delle persone che erano depresse durante la vita mostrano un’attività cellulare alterata. Questo ci dà una migliore comprensione di cosa va storto, su cui poi possiamo costruire”.
In Europa, secondo l’EpiCentro ISS: “In Europa, il solo disturbo depressivo maggiore rende conto del 6% del carico (burden) totale di sofferenza e disabilità legato alle malattie. Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, attualmente questo disturbo è al terzo posto in ordine di importanza per il carico che provoca e, se non verrà contrastato, salirà al secondo entro il 2020 e al primo entro il 2030.
Da un punto di vista di salute pubblica, quindi, il disturbo depressivo maggiore costituisce uno dei problemi più seri e una delle maggiori fonti di carico assistenziale e di costi per il Servizio sanitario nazionale.
Più episodi di depressione maggiore si sono avuti, più è facile averne di nuovi. Circa il 50% delle persone, dopo avere avuto un primo episodio di depressione ne ha un secondo; dopo tre episodi, la probabilità di averne un quarto è del 90%.
Nelle sue manifestazioni estreme il disturbo depressivo maggiore può portare al suicidio, a causa del quale muoiono in Italia circa 4 mila persone ogni anno. In Italia, secondo le stime dello studio Esemed, ogni anno oltre un milione e mezzo di adulti soffre di un disturbo depressivo.
La depressione può insorgere a varie età e diversi strumenti possono essere utilizzati come indicatori della frequenza del problema tra i giovani, gli adulti e gli anziani. Per quanto riguarda gli adulti, il sistema di sorveglianza Passi rileva quanto riferito da persone tra i 18 e i 69 anni di età, ovviamente escludendo finalità diagnostiche e solo allo scopo di focalizzare l’attenzione di operatori sanitari sull’importanza di servizi rivolti a questo tipo di sofferenza nella popolazione considerata socialmente e lavorativamente “attiva”.
Nel sistema Passi sono rilevati i sintomi depressivi fondamentali (i sintomi di umore depresso e perdita di interesse o piacere per tutte, o quasi tutte, le attività) utilizzando un test validato, il Patient Health Questionnaire-2 (Phq-2). Il Phq-2 è uno strumento di screening derivato dal Patient Health Questionnaire-9 con soddisfacente sensibilità e specificità.
In ambito clinico il Phq-2 consente di individuare le persone con probabile disturbo depressivo da indirizzare ai servizi specialistici, solo in questo contesto e con strumenti diagnostici più accurati sarà possibile fare diagnosi di un disturbo depressivo. In ambito di sorveglianza il Phq-2 consente di individuare le persone con probabile disturbo depressivo.
Con i dati rilevati vengono effettuate misure di prevalenza e di caratterizzazione delle persone “probabilmente” depresse con, patologie croniche, stili di vita e altri fattori anche sociali rilevati nello stesso sistema.
Nel periodo 2008–2011, i sintomi depressivi vengono riferiti da una quota non trascurabile della popolazione adulta: circa il 7% delle persone fra 18 e 64 anni di età. A soffrirne maggiormente sembrano essere le persone più anziane, le donne (9%), chi dichiara di avere molte difficoltà economiche (16%), le persone con più basso livello di istruzione (12%), coloro che non hanno un lavoro regolare (9%), chi vive solo (10%) e coloro che sono affetti da almeno una patologia cronica (14%) fra quelle indagate nella sorveglianza”.
Seconndo l’OMS, la depressione: “È un disordine mentale comune, di cui si stima il 5% della popolazione globale soffra. È caratterizzata da tristezza persistente, una mancanza di interesse o piacere in attività, anche quelle considerate prima come piacevoli; […] è una causa importante di disabilità. Esistono trattamenti psicologici e farmacologici”.
Nicola Conti, psicoterapeuta, ha dichiarato: “Per depressione si intende qualcosa ben oltre l’essere giù di morale: si tratta di non pensare al futuro, ma al non senso. Quello che si fa in effetti è adagiarsi nel non senso e il rischio per chi vi si trova accanto o li assiste è colludere col meccanismo, quando invece si deve scardinarlo”.
” Specialmente per i familiari assistere un familiare con depressione è enormemente complicato, perché si tratta di tenere la misura 24 ore su 24. Tra l’altro se sei un genitore o un partner è ovvio che ti senti motivato, quindi seguire un percorso di psicoterapia potrebbe essere utile per imparare a gestire la persona”.
“In primis, il rischio, sia per chi lavora a stretto contatto con pazienti (come la figura dello psicoterapeuta), sia per chi vive queste situazioni da amico o familiare è di essere “contagiato”. In questo caso il contagio emotivo, soprattutto se sei una persona particolarmente empatica, letteralmente ti trasmette lo stesso senso di inutilità. Per questo mettere dei confini è assolutamente necessario.
A maggior ragione nei casi in cui ti trovi davanti una persona non interattiva, e per la quale pur di stimolarla sei portato a prenderti “carico delle sue fatiche” incontrando una frustrazione continua: tanto applicarsi per elaborare i loro problemi, cercandone una chiave di lettura e poi te li smontano con mancanza di partecipazione totale, come inabilità. Manca la loro parte. Un silenzio scomodo per chi vuole aiutare, che sia lo psicoterapeuta o l’amico.
Intanto anche qui il pericolo è rimanere incastrati tra la compassione/commiserazione (“poverino”) e l’insistenza (“datti una mossa”). Questo tipo di situazioni porta ad una relazione asimmetrica, perché ci si pone al di sopra, come se quella persona dipendesse da noi. Dobbiamo sì essere incoraggianti, ma senza cercare di sostituirci a lei/lui.
Consideriamo che manca di prospettiva temporale, ha un vero e proprio blocco progettuale, non è in grado di vedere il futuro. Questo non significa che non debba essere aiutato a sentirsi responsabilizzato nella possibilità di poter cambiare.
È sicuramente micidiale stare accanto queste persone. Assumere l’atteggiamento da crocerossino, che sfocia nell’autosacrificio e nell’accettazione incondizionata, ha spesso la parvenza di un’autorealizzazione.
L’ultima cosa da fare è attaccare: “non ti sei fatto sentire?”, perché già la depressione si configura come un’autoaccusa. Quindi è magari da riportare il discorso su se stessi, spiegando come ci sente, dimostrando il proprio dispiacere a riguardo. Bisogna prendersi degli spazi, senza attaccare.
Più scavi e più ti rendi conto che non è tristezza, ma rabbia che girano verso loro stessi in un dialogo interno severo. La sfida per la terapia è portarli alla consapevolezza che sono arrabbiati con sé stessi, specialmente se si parla di persone con trascorsi difficili.
E la vera conquista sarebbe trasformare questa rabbia in azione. Per quanto riguarda chi sta accanto a loro ogni giorno è sicuramente sbagliato e fastidioso con frasi come “datti una mossa”, “forzati di uscire”. Un atteggiamento di ascolto e comprensione è molto più utile.
Nicola Conti ci ha aiutati a capire che non esiste una formula, è una ricerca sperimentale di equilibrio. Per chi si trova accanto a chi soffre di depressione, è come camminare sulle sabbie mobili, in cui si affonda sacrificando la propria identità giorno dopo giorno.
Questo non è né giusto, né utile. Come non lo è aggredire, giudicare o fare pressione, sebbene a volte la situazione possa sembrare insostenibile e sbottare è assolutamente umano. La parola chiave sembra essere dunque onestà, nei confronti di sé stessi e nei confronti del familiare/amico in questione.
Cosa vogliamo noi da quella persona? È qualcosa che è in grado di darci? Cosa possiamo offrire noi? Sono tutte domande da porsi quando si teme di essere arrivati ad un punto di non ritorno. Cercare di infrangere la loro disistima, la loro non-volontà, da soli, può essere rischiosissimo e sfociare in una continua frustrazione. C’è ancora tanta strada da fare, ma nel nostro piccolo rispettare e rispettarsi possono aiutare.
È un processo di crescita per entrambi, e a spese di entrambi, ma fondamentale per andare avanti con noi stessi e per loro, abbandonando un loop infinito, per costruire prospettive reali”.