Un team di ricercatori guidato dalla professoressa Sherene Loi del Peter Mac ha svelato il meccanismo attraverso il quale l’avere figli e l’allattamento al seno conferiscono alle donne una riduzione del rischio a lungo termine di sviluppare il cancro al seno. Lo studio fornisce per la prima volta una spiegazione biologica dettagliata dell’effetto protettivo associato alla gravidanza, evidenziando il suo impatto duraturo sul sistema immunitario della donna.

La spiegazione biologica dell’effetto protettivo di gravidanza e allattamento sul rischio di cancro al seno
Secondo la professoressa Loi, i risultati ottenuti offrono nuove e preziose prospettive sia per la prevenzione che per il trattamento del cancro al seno. La ricerca si è focalizzata sulle cellule immunitarie presenti nel tessuto mammario.
La scoperta fondamentale è che le donne che hanno allattato al seno possiedono un numero maggiore di cellule immunitarie altamente specializzate, note come cellule T CD8⁺, che permangono nel tessuto mammario per decenni successivi al parto. Queste cellule, come spiegato dalla Prof. Loi, una scienziata clinica, agiscono come delle vere e proprie “guardie locali”. Esse sono costantemente pronte ad attaccare qualsiasi cellula anomala che manifesti il potenziale di trasformarsi in una neoplasia.

Questo meccanismo di protezione si ritiene possa essersi evoluto per difendere le madri durante il periodo post-gravidanza, intrinsecamente più vulnerabile. Oggi, esso contribuisce a ridurre significativamente il rischio complessivo di cancro al seno, con una particolare efficacia contro la forma più aggressiva e difficile da trattare, nota come cancro al seno triplo negativo.
La professoressa Loi ha specificato che il completamento dell’intero ciclo biologico – che comprende la gravidanza, l’allattamento e il conseguente recupero del seno – è il fattore scatenante che porta all’accumulo di queste cellule T nel tessuto mammario. L’efficacia e l’effetto protettivo di queste cellule T CD8⁺ sono stati inoltre confermati attraverso specifici esperimenti preclinici.
L’impatto delle cellule T protettive sulla sopravvivenza delle pazienti
La ricerca sull’effetto protettivo della gravidanza e dell’allattamento ha fornito chiare evidenze precliniche riguardo al ruolo cruciale delle cellule T residenti nel seno. Nello specifico, per validare il meccanismo ipotizzato, sono stati impiegati modelli sperimentali che simulavano una storia riproduttiva caratterizzata da gravidanza e allattamento.

Quando le cellule tumorali venivano introdotte nel tessuto mammario di questi modelli, l’osservazione è stata lampante: i modelli con la storia riproduttiva completa mostravano una capacità notevolmente superiore nel rallentare o persino nell’arrestare la progressione della crescita tumorale rispetto ai modelli di controllo. È fondamentale sottolineare che questa efficacia difensiva si manifestava esclusivamente in presenza delle cellule T. L’assenza o la rimozione di queste cellule immunitarie annullava l’effetto protettivo, confermando che sono le cellule T CD8⁺ a essere le dirette responsabili della sorveglianza e dell’azione antitumorale.
I risultati sperimentali hanno trovato una robusta rispondenza clinica attraverso l’analisi retrospettiva dei dati di oltre 1.000 pazienti affette da cancro al seno. Lo studio ha messo in correlazione la storia di allattamento al seno delle donne con le caratteristiche immunitarie dei loro tumori e l’esito clinico a lungo termine.
L’analisi dei campioni tumorali ha rivelato che le donne con una storia di allattamento al seno presentavano tumori con una maggiore infiltrazione, o “carico”, di queste cellule T protettive. Questo dato clinico supporta direttamente l’ipotesi biologica secondo cui l’allattamento induce l’accumulo a lungo termine di queste sentinelle immunitarie nel seno.

Ancora più significativo è il riscontro sull’esito clinico: l’aumento di queste cellule T nel microambiente tumorale si è tradotto, in specifici sottogruppi di pazienti, in una sopravvivenza più lunga dopo la diagnosi di cancro al seno. Questo suggerisce che l’eredità immunitaria lasciata dall’allattamento non solo riduce il rischio di sviluppare il cancro, ma può anche influenzare positivamente il decorso della malattia e la prognosi, probabilmente rendendo il tumore più suscettibile al controllo immunitario endogeno.
L’impronta immunitaria a lungo termine
È un dato epidemiologico consolidato da tempo che la storia riproduttiva di una donna, in particolare l’aver avuto figli, è associata a una significativa riduzione a lungo termine del rischio di sviluppare il cancro al seno. Fino a poco tempo fa, l’ipotesi dominante per spiegare questo effetto protettivo si concentrava prevalentemente sui cambiamenti ormonali indotti dalla gravidanza.
Si riteneva che l’ambiente ormonale altamente modificato durante la gestazione potesse indurre una maturazione terminale del tessuto mammario. Questo processo renderebbe le cellule del seno meno suscettibili alla trasformazione maligna nel corso degli anni successivi. Tuttavia, sebbene i cambiamenti ormonali siano innegabilmente profondi e duraturi, non fornivano una spiegazione completa del meccanismo protettivo a lungo termine né giustificavano appieno la forte associazione con l’allattamento.

La recente ricerca scientifica introduce una svolta concettuale, spostando l’attenzione dai meccanismi ormonali transitori a un riassetto immunitario permanente all’interno del tessuto mammario. Questo nuovo approccio suggerisce che la gravidanza e, soprattutto, l’allattamento agiscono come un “allenamento” o un rimodellamento dell’immunità locale nel seno.
La scoperta chiave è l’accumulo di cellule T CD8⁺ residenti nella memoria nel tessuto mammario. Queste cellule immunitarie sono il segno di una memoria immunitaria duratura: sono “soldati” altamente specializzati che si stabiliscono nel seno, pronte a reagire immediatamente a potenziali minacce.
In questo contesto, esse agiscono come una sorveglianza immunitaria costante contro le cellule anomale o precancerose, conferendo una protezione che trascende i cambiamenti ormonali immediati. L’identificazione di questo meccanismo immunitario fornisce finalmente una spiegazione biologica causale più robusta per l’effetto protettivo osservato a distanza di decenni dal parto.
La comprensione che l’immunità locale sia la chiave della protezione apre la porta a approcci completamente nuovi sia per la prevenzione che per il trattamento del cancro al seno.
Per quanto riguarda la prevenzione, la ricerca suggerisce che, invece di agire solo sull’equilibrio ormonale, si potrebbe mirare a replicare o potenziare l’impronta immunitaria lasciata dalla gravidanza e dall’allattamento. Ad esempio, si potrebbe esplorare lo sviluppo di vaccini profilattici o terapie che stimolino selettivamente la migrazione e la stabilizzazione di queste cellule T protettive nel tessuto mammario nelle donne ad alto rischio che non hanno avuto una storia riproduttiva completa.
La scoperta che la storia riproduttiva di una donna modella l’immunità locale del seno, lasciando una “firma” duratura sotto forma di cellule T CD8⁺ residenti nel tessuto, non si limita alla prevenzione, ma ha profonde implicazioni nel campo dell’oncologia.

L’associazione tra la presenza di un elevato numero di queste cellule T protettive nel microambiente tumorale e una migliore prognosi osservata in alcuni sottogruppi di pazienti con cancro al seno suggerisce che il sistema immunitario locale sta già tentando di controllare la malattia. Questa correlazione clinica è il fondamento su cui si basano le future strategie di trattamento.
Un approccio terapeutico cruciale consisterà nell’elaborare metodi per attivare le cellule T CD8⁺ che sono già presenti all’interno o in prossimità del tumore. Molte cellule immunitarie presenti in un tumore, sebbene potenzialmente antitumorali, possono essere state rese inefficaci dal microambiente immunosuppressivo creato dalle cellule cancerose stesse.
Le strategie si concentreranno quindi sulla rimozione dei “freni” immunitari (come i checkpoint immunologici) o sull’uso di molecole che stimolino direttamente l’attività citotossica di queste cellule T residenti. Riattivando queste cellule si sfrutterebbe la memoria immunitaria già stabilita per lanciare un attacco mirato e ad alta specificità contro le cellule tumorali.

Il secondo obiettivo terapeutico fondamentale è aumentare il reclutamento di ulteriori cellule T nel microambiente tumorale, un processo essenziale per superare la resistenza immunitaria intrinseca di molti tumori. I tumori con scarsa infiltrazione di cellule immunitarie sono spesso definiti “freddi”, e sono noti per la loro scarsa risposta alle attuali immunoterapie.
L’obiettivo è trasformare questi tumori in tumori “caldi” (ricchi di cellule immunitarie) attraverso l’uso di citochine, chemioterapie specificamente disegnate per liberare antigeni immunogenici, o vaccini terapeutici che possano attrarre e indirizzare le cellule T CD8⁺ al sito tumorale. Riuscire a massimizzare l’infiltrazione e l’attività di queste cellule renderà il tumore molto più sensibile non solo alle innovative immunoterapie, ma anche a terapie standard come la radioterapia e la chemioterapia.
Lo studio è stato pubblicato su Nature.