Secondo un nuovo studio dell’Università di Stanford, pubblicato il 2 maggio sulla prestigiosa rivista Science Advances, la risposta è sì: possiamo gestire l’instabilità dei Campi Flegrei, e non solo limitarci a osservarla.
Negli ultimi anni, una serie di scosse sismiche ha iniziato a colpire con sempre più forza l’area dei Campi Flegrei, vicino Napoli.
Si parla di una zona vulcanica molto particolare, dove il terreno si alza e si abbassa ciclicamente, come se la terra stesse “respirando”. Ma cosa c’è davvero sotto i nostri piedi? E soprattutto: si può prevenire questa instabilità?
Cosa sta succedendo ai Campi Flegrei?
I Campi Flegrei sono una gigantesca caldera vulcanica larga circa 13 km, formatasi da eruzioni esplosive avvenute migliaia di anni fa. Non è un vulcano “a cono” come il Vesuvio, ma una zona depressa che si solleva e si abbassa nel tempo; negli anni ’80, ad esempio, il suolo si sollevò di oltre due metri, costringendo all’evacuazione circa 40.000 persone da Pozzuoli.

Questo sollevamento del terreno viene spesso associato alla risalita di magma, ma lo studio di Stanford suggerisce che la vera causa potrebbe essere l’acqua, o meglio, la pressione dei fluidi intrappolati nel sottosuolo.
Il meccanismo: come una moka esplosiva
Sotto Pozzuoli c’è un enorme serbatoio geotermico, pieno di acqua e vapore ad altissima temperatura; sopra questo serbatoio c’è uno strato di roccia che agisce come un coperchio.
Quando l’acqua piovana penetra nel sottosuolo e si accumula nel serbatoio, la pressione aumenta; se il coperchio è ben sigillato, si crea un sistema chiuso – un po’ come una moka sul fuoco: finché il coperchio tiene, la pressione sale fino a quando esplode.
Gli scienziati hanno simulato proprio questo processo in laboratorio, usando un’apparecchiatura simile a una moka. Hanno dimostrato che le rocce dei Campi Flegrei possono effettivamente sigillarsi da sole nel tempo, creando una trappola per la pressione. Quando il sistema cede, si hanno improvvisi terremoti e rumori forti, i famosi “boati” che i residenti di Pozzuoli conoscono fin troppo bene.
Non è il magma a far tremare tutto
Una delle scoperte più interessanti dello studio è che i terremoti non sembrano partire dal basso, come ci si aspetterebbe se fosse il magma a spingere e al contrario, iniziano a una profondità di circa 1,5 km, proprio nella zona del serbatoio geotermico; e si fanno più profondi col tempo, non più superficiali. Questo cambia radicalmente la nostra comprensione del fenomeno.

Non è il magma a spingere verso l’alto, ma è la pressione dell’acqua a cercare una via di fuga. E quando trova una crepa, il rilascio è violento.
La soluzione? Gestire l’acqua, non il fuoco
La buona notizia è che, a differenza del magma, l’acqua può essere gestita. Secondo la professoressa Tiziana Vanorio, autrice dello studio (e originaria di Pozzuoli), si potrebbero prevenire le crisi sismiche controllando il deflusso delle acque piovane o riducendo la pressione nel sottosuolo estraendo fluidi tramite pozzi.

Una sorta di “medicina preventiva” per la Terra, come la definisce lei. Invece di aspettare l’emergenza, possiamo agire prima.
Un nuovo approccio per le istituzioni
Questo studio rappresenta una svolta importante per la gestione dei rischi vulcanici in Italia; non si tratta di abbassare la guardia, ma di aggiungere nuovi strumenti alla cassetta degli attrezzi delle istituzioni e se le autorità locali adotteranno questo approccio, si potrebbe pertanto passare dalla reazione all’azione, anticipando i problemi prima che diventino disastri.
Come dice Tiziana Vanorio: “Non possiamo agire sul magma, ma possiamo gestire l’acqua. E questo può fare la differenza per chi vive lì.”