Il cervello possiede una sorta di bussola interna che permette di orientarsi e nel regno dei ricordi, la domanda “dove” ha un’importanza speciale e dove ho lasciato le chiavi? Dove ho cenato ieri sera? Dove ho incontrato per la prima volta quell’amico?

Queste semplici domande attivano la memoria spaziale, la funzione che ci permette di orientarci nel mondo ed è una capacità essenziale, ma anche una delle prime a vacillare con l’età e la sua perdita precoce può essere un segnale di demenza incipiente.
Un nuovo studio della Stanford Medicine, pubblicato su Nature Communications, ha però scoperto qualcosa di sorprendente: il declino della memoria spaziale non è inevitabile e alcuni cervelli anziani mantengono un’efficienza simile a quella giovanile, e i ricercatori stanno iniziando a capire il perché.
Il GPS biologico (o bussola biologica) del cervello
Il cuore della ricerca è la corteccia entorinale mediale, una regione che agisce come un vero navigatore cerebrale e qui vivono le cellule a griglia (grid cells), neuroni che creano una sorta di mappa interna dell’ambiente come un sistema di coordinate che aiuta a ricordare dove ci troviamo.
Per capire cosa succede con l’età, i neuroscienziati hanno studiato tre gruppi di topi:
- Giovani (3 mesi, equivalenti a un umano di circa 20 anni),
- Di mezza età (13 mesi, paragonabili a 50 anni),
- Anziani (22 mesi, l’equivalente di 75-90 anni).

I topi, leggermente assetati, correvano su una sfera in realtà virtuale immersiva, cioè un mini “Imax per roditori”, alla ricerca di piccole ricompense (una goccia d’acqua) e ogni animale ha percorso i tracciati centinaia di volte per sei giorni, imparando gradualmente dove fermarsi per ricevere la ricompensa.
Nel frattempo, le cellule a griglia dei loro cervelli costruivano vere e proprie mappe mentali, riconoscendo i percorsi appresi.
Quando cambia la rotta, il cervello anziano si perde
La sfida è arrivata con un test più complesso: due percorsi alternati in modo casuale, ciascuno con una ricompensa in una posizione diversa e i topi anziani si sono confusi: non riuscivano più a capire su quale percorso si trovassero, correndo fino alla fine senza cercare la ricompensa o provando a leccare ovunque.
“È come ricordarsi dove hai parcheggiato l’auto in due parcheggi diversi o dove si trova il tuo bar preferito in due città differenti”, spiega Lisa Giocomo, professoressa di neurobiologia e autrice senior dello studio.

La loro attività cerebrale confermava la confusione: le cellule a griglia, invece di accendersi in modo ordinato, diventavano caotiche, perdendo la capacità di distinguere i due ambienti; i topi giovani e di mezza età, invece, si orientavano con precisione: le loro mappe mentali erano stabili e coerenti.
“I topi anziani non riescono più a creare mappe spaziali distinte,” spiega Charlotte Herber, prima autrice e dottoranda in neuroscienze. “Ma questo non vale per tutti.”
Il caso del “super-ager”: un topo che non voleva invecchiare
Tra i topi più anziani, le differenze individuali erano marcate.
In generale, i maschi si sono comportati meglio delle femmine, ma un caso in particolare ha lasciato i ricercatori senza parole: un topo anziano che ha battuto tutti, ricordando perfettamente le posizioni delle ricompense su entrambi i tracciati.
“Pensavo avrebbe rovinato tutte le statistiche,” scherza Herber. “Invece è stato la prova vivente, o meglio, pelosa che la memoria spaziale può restare intatta anche in età avanzata.”

Le sue cellule a griglia erano cristalline, con schemi di attivazione stabili e precisi, proprio come nei giovani e un vero “super-ager”, termine usato anche negli studi umani per indicare chi mantiene capacità cognitive eccezionali dopo i 70 anni.
Il fattore genetico: 61 geni sotto osservazione
Questo risultato ha spinto i ricercatori a cercare un’origine genetica della resilienza cognitiva.
Analizzando l’RNA di topi giovani e anziani, hanno scoperto 61 geni associati alla perdita di stabilità delle cellule a griglia.
Uno in particolare, Haplin4, produce proteine che formano la rete perineuronale — una struttura che protegge e stabilizza i neuroni e secondo gli studiosi, questo meccanismo potrebbe essere una chiave naturale contro il declino cognitivo.

“Come negli esseri umani, anche nei topi l’invecchiamento è variabile,” conclude Herber.
“Capire perché alcuni cervelli restano più forti di altri è il primo passo per prevenire la perdita di memoria spaziale.”
Oltre la vecchiaia: un passo verso la prevenzione della demenza
Lo studio, condotto in collaborazione con l’Università della California, San Francisco, è stato finanziato da istituzioni come il National Institute on Aging, la BRAIN Initiative e la James S. McDonnell Foundation.
La scoperta più importante? Il cervello non è destinato a perdersi con l’età e alcune persone e perfino alcuni topi mantengono intatta la loro bussola interiore e capire cosa li rende diversi potrebbe un giorno aiutarci a prevenire il declino cognitivo, prima ancora che inizi.