Un nuovo studio internazionale suggerisce che l’ambiente che circonda i buchi neri supermassicci non è rimasto invariato nel corso della storia dell’universo. In particolare, il modo in cui la materia emette luce ultravioletta e raggi X nei quasar sembra essere cambiato negli ultimi miliardi di anni.

La ricerca, guidata dall’Osservatorio Nazionale di Atene e pubblicata su Monthly Notices of the Royal Astronomical Society, potrebbe mettere in discussione una delle assunzioni più solide dell’astrofisica moderna, valida da quasi mezzo secolo.
Perché i quasar sono tra gli oggetti più luminosi dell’universo
I quasar, scoperti negli anni ’60, sono alimentati da buchi neri supermassicci che attirano enormi quantità di materia. Prima di cadere nel buco nero, questo materiale forma un disco di accrescimento che ruota a velocità estreme.
L’attrito all’interno del disco porta la materia a temperature elevatissime, al punto da emettere una quantità di energia fino a 1.000 volte superiore a quella di un’intera galassia. È per questo che i quasar possono essere osservati anche a distanze cosmiche enormi, oscurando le galassie che li ospitano.
Dall’ultravioletto ai raggi X: il ruolo della “corona”
Il disco di accrescimento produce grandi quantità di luce ultravioletta e questa radiazione, passando attraverso una regione di particelle altamente energetiche chiamata corona, viene “potenziata” trasformandosi in raggi X.

Da decenni gli astronomi sanno che esiste una relazione diretta: più luce ultravioletta – più raggi X.
Questa correlazione è stata considerata universale, cioè valida per tutti i quasar, in ogni epoca dell’universo.
Una relazione che cambia nel tempo cosmico
Ed è proprio qui che arriva la sorpresa.
Analizzando un vastissimo campione di quasar, i ricercatori hanno scoperto che quando l’universo aveva circa metà dell’età attuale, il rapporto tra emissione ultravioletta e raggi X era diverso rispetto a quello osservato oggi.
In altre parole: il modo in cui disco di accrescimento e corona interagiscono sembra essere cambiato negli ultimi 6,5 miliardi di anni.
“Confermare che il rapporto tra raggi X e ultravioletto non è universale nel tempo cosmico è sorprendente e mette in crisi la nostra comprensione di come crescono e irradiano i buchi neri supermassicci”, ha spiegato Antonis Georgakakis, uno degli autori dello studio.
Come è stata fatta la scoperta
Il team ha combinato:
- nuove osservazioni del telescopio eROSITA
- dati d’archivio dell’osservatorio XMM-Newton dell’ESA
La forza di eROSITA sta nella sua copertura uniforme dell’intero cielo, che ha permesso di studiare popolazioni di quasar su una scala mai raggiunta prima.

Molti di questi oggetti emettono pochi fotoni X, ma grazie a un’analisi statistica bayesiana avanzata, i ricercatori sono riusciti a individuare variazioni sottili ma consistenti.
Perché questa scoperta è importante (anche per la cosmologia)
Alcuni modelli cosmologici utilizzano i quasar come “candele standard” per studiare:
- la geometria dell’universo
- la materia oscura
- l’energia oscura
Questi metodi si basano sull’idea che il comportamento dei quasar sia stabile nel tempo. Se questa assunzione non è valida, alcune misurazioni cosmologiche potrebbero dover essere riviste o corrette.
Cosa ci aspetta ora
Le future scansioni complete del cielo di eROSITA permetteranno di osservare quasar ancora più deboli e lontani. Incrociando questi dati con le prossime generazioni di osservatori multi-lunghezza d’onda, gli scienziati potranno capire se il fenomeno osservato rappresenta:
- una vera evoluzione fisica dei buchi neri
- oppure un effetto legato ai limiti osservativi
In entrambi i casi, la scoperta apre una nuova finestra su uno dei motori fondamentali dell’universo: i buchi neri supermassicci e il modo in cui hanno “illuminato” il cosmo nel corso del tempo.