Altro che caffeina: 4.000 anni fa, nel cuore della Thailandia preistorica, le persone già masticavano betel per rilassarsi, socializzare e restare svegli. E ora ne abbiamo la prova chimica.
Un team di archeologi ha scoperto tracce invisibili di betel nei denti di una donna sepolta nel sito neolitico di Nong Ratchawat, grazie a una tecnica scientifica d’avanguardia che potrebbe rivoluzionare lo studio delle abitudini umane antiche. Una scoperta che anticipa di almeno 1.000 anni le prove precedenti sull’uso del betel nel Sud-est asiatico.
La pianta della socialità (e del sorriso rosso)
La noce di betel – o più precisamente il seme dell’areca – viene da secoli masticata in tutta l’Asia, spesso mescolata con calce spenta e avvolta in foglie di piper betle. Un rito quotidiano, un simbolo di ospitalità e anche una droga leggera: produce euforia, rilassamento, energia e… denti macchiati di rosso.
Ma in questo caso, nessuna traccia visibile. Nessuna pigmentazione sui denti, nessun residuo macroscopico. Solo alcune molecole psicoattive (arecolina e arecaidina) rimaste intrappolate nella placca dentale fossilizzata.
E questo cambia tutto.
La scienza dietro la scoperta
Il team ha utilizzato LC-MS (cromatografia liquida con spettrometria di massa), una tecnologia che di solito si usa in farmaceutica e sicurezza alimentare. Prelevando appena 5 milligrammi di placca da sei individui, i ricercatori hanno potuto isolare residui molecolari invisibili a occhio nudo.
La chiave del metodo? Un campione di controllo, realizzato con saliva umana e miscela moderna di betel, calce, corteccia di catechu e tabacco, per simulare le condizioni reali della masticazione.
La prova regina è arrivata da “Burial 11”: una donna di circa 25 anni, i cui denti contenevano tracce inequivocabili dei principi attivi del betel, nonostante l’assenza di macchie.
“È la prima prova biochimica diretta dell’uso del betel in Asia continentale,” ha detto l’autore dello studio Piyawit Moonkham, dell’Università di Chiang Mai.
Archeologia molecolare: il futuro è nei denti

Secondo Melandri Vlok, bioarcheologa australiana, lo studio è una pietra miliare: “Usare questa tecnologia per rilevare sostanze psicoattive nei denti antichi è qualcosa di mai fatto prima.”
E non è solo questione di tecnologia. Il lavoro è importante anche perché viene da ricercatori locali, e non da colossi occidentali. La placca è stata analizzata negli USA, ma la guida dello studio è tutta thailandese.
“È uno degli aspetti che mi emoziona di più,” ha detto Vlok. “Finalmente vediamo emergere la ricerca scientifica direttamente dalle regioni di cui parliamo.”
Una tradizione millenaria… oggi demonizzata
Oggi il betel è classificato come cancerogeno, legato a un aumento significativo dei casi di cancro orale. In Thailandia il governo lo ha scoraggiato dagli anni ’40, e oggi è raro nelle città, anche se ancora comune nelle zone rurali.
Moonkham, però, ricorda anche il lato umano:
“Mia nonna lo masticava dopo pranzo, parlando con le amiche. Era un momento di socialità.”
Lontano dai salotti accademici, il betel era un legame, un gesto condiviso. Ed è proprio questa la prospettiva che lo studio vuole recuperare.
La tecnica del futuro?

L’uso dell’LC-MS nella ricerca archeologica è ancora raro per via dei costi: serve un Orbitrap, uno spettrometro tra i più avanzati al mondo. Ma ora che ha dimostrato la sua efficacia, potrebbe aprire una nuova frontiera per scoprire tracce invisibili di:
- Droghe e piante medicinali
- Alimenti fermentati
- Tradizioni rituali legate all’olfatto e al gusto
E tutto senza distruggere i resti antichi, rendendo la tecnica perfetta per campioni delicati.
E adesso?
Il team prevede di analizzare oltre 150 resti ancora non studiati a Nong Ratchawat. E Moonkham vuole approfondire i ruoli sociali, religiosi e curativi del betel nel Neolitico.
Perché a volte basta un dente per scoprire che la storia dell’umanità passa anche da un quid masticato attorno al fuoco.
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