Da anni, la professoressa associata di psicologia Catherine Talbot della Florida Tech dedica la sua ricerca alla comprensione della socialità nei macachi rhesus maschi. Il suo lavoro si concentra sulla peculiarità di queste scimmie, alcune delle quali manifestano una tendenza alla scarsa socialità, rendendole un modello animale potenzialmente prezioso per lo studio del disturbo dello spettro autistico (ASD) negli esseri umani. Le sue più recenti scoperte aprono nuove prospettive terapeutiche: la reintegrazione di un ormone deficitario, la vasopressina, ha dimostrato di incrementare la socialità nei macachi senza indurre un aumento dell’aggressività, un risultato che potrebbe rivoluzionare l’approccio al trattamento dell’autismo.

L’urgente necessità di trattamenti efficaci per l’autismo
L’incidenza del disturbo dello spettro autistico rappresenta una crescente preoccupazione sanitaria a livello globale. I dati attuali dei Centers for Disease Control and Prevention indicano che negli Stati Uniti un bambino su 36 presenta una diagnosi di ASD, un aumento significativo rispetto al rapporto di uno su 44 bambini registrato nel 2018. La professoressa Talbot sottolinea come, nonostante l’aumento della prevalenza e della consapevolezza del disturbo, le attuali opzioni terapeutiche approvate dalla Food and Drug Administration (FDA) si limitino ad agire sui sintomi associati all’ASD, senza intervenire sulle cause primarie del disturbo. Questo scenario evidenzia l’impellente necessità di sviluppare approcci terapeutici innovativi e più mirati.
Una caratteristica distintiva dei macachi rhesus è la marcata variabilità individuale nei loro comportamenti sociali. Alcuni individui mostrano una naturale tendenza alla scarsa socialità, manifestando limitate capacità cognitive sociali, mentre altri si distinguono per un elevato livello di socialità. Questa gamma di comportamenti sociali rispecchia la diversità osservabile nella socialità umana, che spazia da individui estremamente socievoli a persone con un limitato interesse per le interazioni sociali, una caratteristica riscontrabile in alcune persone con diagnosi di disturbo dello spettro autistico, come precisa la professoressa Talbot. Il fulcro della sua ricerca risiede nell’indagare come le variazioni biologiche e comportamentali sottendano le differenze nella cognizione sociale.

In un recente studio condotto in collaborazione con ricercatori di Stanford, dell’Università della California, Davis, e del California National Primate Research Center, la professoressa Talbot ha focalizzato la sua attenzione sulla vasopressina. Questo ormone è notoriamente coinvolto nella regolazione dei comportamenti sociali nei mammiferi ed è stato esplorato come un potenziale trattamento terapeutico in grado di favorire una migliore integrazione sociale nelle persone con autismo.
La scoperta che la reintegrazione della vasopressina nei macachi rhesus poco sociali incrementa i loro comportamenti sociali senza innescare un aumento dell’aggressività rappresenta un avanzamento significativo nel campo della ricerca sull’autismo e apre la strada a nuove strategie terapeutiche mirate.
Nuove strategie terapeutiche
Precedenti indagini condotte dallo stesso gruppo di ricerca avevano stabilito una correlazione significativa tra bassi livelli dell’ormone vasopressina nel loro modello di macaco rhesus poco sociale e analoghe carenze riscontrate in un sottogruppo di individui con disturbo dello spettro autistico (ASD). Questa scoperta ha suggerito un potenziale ruolo causale della vasopressina nelle difficoltà sociali osservate in entrambi i modelli.

Studi precedenti sull’effetto della somministrazione di vasopressina nei roditori avevano sollevato preoccupazioni riguardo a un potenziale aumento dell’aggressività in seguito all’incremento dei livelli ormonali. Questa osservazione aveva indotto i ricercatori a esprimere cautela sull’impiego della vasopressina come trattamento terapeutico per disturbi caratterizzati da deficit sociali.
Ka professoressa Talbot ha tuttavia offerto una prospettiva più sfumata, argomentando che negli studi sui roditori l’aumento dell’aggressività indotto dalla vasopressina si manifestava in contesti socialmente appropriati per la specie, come la difesa del territorio o la protezione del partner. Pertanto, l’ormone potrebbe semplicemente promuovere comportamenti tipici della specie in risposta a specifici stimoli sociali.
Un’ulteriore osservazione cruciale sollevata dalla professoressa Talbot riguarda il fatto che i precedenti studi sulla vasopressina erano stati condotti su roditori “neurotipici”, ovvero con uno sviluppo neurologico tipico, e non su modelli animali con preesistenti difficoltà sociali. Questa distinzione apre nuove ipotesi terapeutiche: “È possibile che gli individui con i livelli endogeni più bassi di vasopressina possano trarre i maggiori benefici da un intervento di reintegrazione ormonale. Questo rappresenta un passo fondamentale verso la medicina di precisione nel trattamento dell’autismo, un’area che necessita ora di ulteriori approfondimenti”, ha affermato la Talbot.

Nel loro più recente lavoro, la professoressa Talbot e i suoi collaboratori hanno intrapreso un esperimento innovativo per valutare la risposta comportamentale di macachi rhesus poco sociali, caratterizzati da bassi livelli di vasopressina e un elevato carico di tratti comportamentali simili all’autismo, alla somministrazione di vasopressina mirata a compensare la loro carenza naturale. L’ormone è stato somministrato attraverso un nebulizzatore, un metodo non invasivo che permetteva alle scimmie di scegliere liberamente se e quando sottoporsi al trattamento.
La professoressa Talbot ha descritto come, per alcuni minuti ogni settimana, le scimmie si avvicinassero volontariamente al nebulizzatore per ricevere la dose di vasopressina, spesso accompagnando l’assunzione con un sorso di succo d’uva bianca, una bevanda particolarmente apprezzata dai macachi. Questo approccio di somministrazione volontaria ha permesso ai ricercatori di studiare l’effetto della vasopressina sul comportamento sociale in un contesto meno stressante e più naturale per gli animali.
Risposte sociali selettivamente potenziate e recupero della memoria di riconoscimento facciale
Una volta accertato che la somministrazione tramite nebulizzatore incrementava efficacemente i livelli di vasopressina nel sistema nervoso centrale dei macachi rhesus poco sociali, i ricercatori hanno intrapreso un’analisi approfondita delle modificazioni comportamentali indotte dall’ormone. L’indagine si è focalizzata sulla risposta delle scimmie a stimoli sociali di natura sia affiliativa che aggressiva, attraverso la visualizzazione di materiale video che ritraeva tali comportamenti. Parallelamente, è stata valutata la loro capacità di riconoscere e memorizzare nuovi oggetti e volti, un’abilità sociale fondamentale spesso deficitaria in individui con disturbo dello spettro autistico (ASD).

Le osservazioni iniziali avevano confermato che le scimmie con una naturale tendenza alla scarsa socialità mostravano una ridotta reattività alla comunicazione sociale e una marcata disparità nelle capacità cognitive, eccellendo nel riconoscimento e nella memorizzazione di oggetti rispetto ai volti, una caratteristica che accomuna alcuni individui con diagnosi di ASD. Tuttavia, la somministrazione di vasopressina ha innescato un cambiamento significativo in questi schemi comportamentali.
Le scimmie trattate hanno iniziato a manifestare una maggiore reciprocità nei confronti dei comportamenti affiliativi e pro-sociali, senza mostrare alcun aumento nei comportamenti aggressivi. Un risultato particolarmente rilevante è stato il miglioramento della loro memoria di riconoscimento facciale, che ha raggiunto un livello equivalente alla loro già elevata capacità di memorizzare oggetti.
In sintesi, la vasopressina ha dimostrato di “ripristinare” la capacità delle scimmie poco sociali di rispondere in modo positivo alle interazioni sociali e di memorizzare nuovi volti. Il trattamento si è rivelato selettivamente efficace nel potenziare la cognizione sociale deficitaria in questi animali, aprendo nuove prospettive terapeutiche mirate.

La professoressa Talbot ha espresso la sua profonda soddisfazione per la concretizzazione di questi risultati, frutto di un impegno prolungato e della risoluzione di numerose sfide scientifiche. Un ulteriore sviluppo promettente è rappresentato dall’iniziativa di uno dei coautori della ricerca, che ha già avviato il processo di traslazione di queste scoperte in studi clinici su coorti di pazienti con autismo. Si prevede che ulteriori indagini cliniche seguiranno, con l’obiettivo di valutare l’efficacia della vasopressina nel migliorare le competenze sociali negli esseri umani con ASD.
Nel prossimo futuro, l’attenzione della professoressa Talbot si concentrerà sull’esplorazione di abilità cognitive sociali più complesse, come la teoria della mente – la capacità di attribuire stati mentali a sé stessi e agli altri – e sulle sue potenziali differenze tra scimmie poco sociali e quelle più socievoli, analizzando le correlazioni con la loro biologia di base.

Parallelamente, un’ambiziosa linea di ricerca futura prevede di valutare l’efficacia di un trattamento mirato con vasopressina in giovani scimmie a rischio di sviluppare deficit sociali correlati all’autismo. L’obiettivo è verificare se un intervento precoce possa effettivamente modificare la loro traiettoria di sviluppo sociale e, in ultima analisi, trasferire questa promettente terapia a sperimentazioni cliniche mirate sulla popolazione umana.
Lo studio è stato pubblicato sul Proceedings of the National Academy of Sciences.