Per la prima volta, la ricerca scientifica trova legami tra differenze genetiche e età della diagnosi di autismo. Lo studio, pubblicato su Nature e coordinato da Varun Warrier dell’Università di Cambridge, apre una nuova strada per comprendere perché in alcuni casi la diagnosi arrivi nella prima infanzia, mentre in altri solo nell’adolescenza o più tardi.
Allo studio ha contribuito anche l’Italia, grazie al team dell’Università di Roma Tor Vergata, che ha fornito una parte significativa dei dati analizzati.
Perché la genetica non bastava (fino a oggi)
Finora le diagnosi di autismo si basavano su osservazioni comportamentali e sociali, come le difficoltà di interazione o la presenza di schemi ripetitivi. L’autismo veniva quindi descritto come una sindrome comportamentale, non come una condizione biologica.
Ma questa definizione era troppo ampia: “autismo” è in realtà un termine ombrello che raccoglie diverse condizioni del neurosviluppo, spesso molto differenti tra loro.
Ora, per la prima volta, il DNA mostra di poter spiegare parte di questa variabilità.
Cosa dice la ricerca di Cambridge e Tor Vergata
Gli scienziati hanno analizzato quattro gruppi di individui di età diversa al momento della diagnosi, incrociando i dati genetici raccolti da due grandi studi internazionali.
Il risultato è sorprendente: i geni sembrano spiegare circa l’11% dei casi in cui la diagnosi è stata fatta in momenti diversi della vita.
Sono emersi due profili principali:
- un primo gruppo in cui ansia, iperattività e difficoltà sociali compaiono molto presto e restano stabili nel tempo;
- un secondo gruppo in cui queste difficoltà aumentano durante l’adolescenza, segno che lo sviluppo cerebrale segue traiettorie diverse.
Diagnosi più mirate e nuove terapie all’orizzonte

Capire quali geni influenzano la comparsa dei sintomi potrebbe aiutare a migliorare la diagnosi precoce e, in futuro, a progettare terapie più personalizzate.
Oggi l’autismo è ancora identificato attraverso test psicologici e osservazioni cliniche, ma lo studio suggerisce che un giorno potremmo usare anche biomarcatori genetici per distinguere con maggiore precisione le varie forme dello spettro.
Non si tratta di una “cura genetica” dell’autismo concetto improprio e fuorviante ma di una mappa per comprendere come i geni interagiscono con l’ambiente e con lo sviluppo cerebrale.
Un passo avanti verso la medicina di precisione
L’obiettivo è arrivare a una diagnosi personalizzata, in cui i dati genetici si affianchino all’osservazione clinica.
Il lavoro del team di Warrier segna un cambio di paradigma: l’autismo non è solo un comportamento da interpretare, ma anche una configurazione biologica da analizzare.
L’Italia, con il contributo di Tor Vergata, si conferma parte attiva della rete internazionale che prova a unire neuroscienze, genetica e psicologia per riscrivere la storia della diagnosi.
Vuoi restare aggiornato sulle scoperte che cambiano il modo in cui guardiamo la mente umana? Seguici su Instagram.