L’espansione degli Artemis Accords nel Sud-est asiatico segna una trasformazione silenziosa ma profonda nel modo in cui il mondo concepisce la cooperazione spaziale; l’ingresso di Malaysia e Filippine non è un semplice atto diplomatico, né una mossa d’immagine ma il segnale che l’esplorazione dello spazio sta cambiando centro di gravità.

Non più dominio esclusivo di Stati Uniti, Europa, Russia o Cina, ma terreno dove le nazioni emergenti cercano legittimamente un posto tra i protagonisti del futuro orbitale e lunare.
Per comprendere questo momento, occorre risalire alla filosofia originaria degli Artemis Accords, nati nel 2020 come complemento politico e normativo del Programma Artemis della NASA — che punta a riportare l’uomo sulla Luna e costruire una presenza sostenibile entro la fine del decennio — gli accordi furono fin dall’inizio concepiti come un insieme di principi condivisi, non come un trattato vincolante.
Gli Artemis Accords erano (e sono) un patto di cooperazione basato sulla trasparenza, sull’uso pacifico dello spazio e sulla condivisione dei dati scientifici, il loro spirito richiama il Trattato sullo spazio extra-atmosferico del 1967, ma ne aggiorna la portata, adattandolo a un’epoca in cui la Luna non è più soltanto un simbolo di conquista, bensì una risorsa potenziale.
La vera differenza è che, dove il trattato del ’67 parlava in termini di “nazioni”, gli Artemis Accords parlano di partnership. In questa nuova logica, anche paesi privi di un’agenzia spaziale autonoma possono contribuire in modi inediti, attraverso università, start-up, reti di sensori terrestri, servizi di analisi dati e sistemi di comunicazione.
È il caso di Malaysia e Filippine, che non dispongono di razzi o capsule, ma che stanno costruendo una propria competenza nel campo delle tecnologie satellitari e delle osservazioni della Terra, e l’adesione agli Artemis Accords rappresenta per loro la porta d’accesso a un ecosistema internazionale di ricerca, know-how e standard tecnici.
Come gli Artemis Accord stanno “globalizzando lo spazio”

Negli ultimi anni, la regione asiatica è diventata un laboratorio geopolitico di primaria importanza per lo spazio, con l’India che è ormai una potenza orbitale consolidata, la Corea del Sud avanza nel settore dei lanciatori, il Giappone mantiene una tradizione di eccellenza scientifica e la Cina procede con un programma autonomo che ha già stabilito una presenza stabile in orbita lunare.
In questo contesto, l’ingresso di Kuala Lumpur e Manila negli Artemis Accords assume una valenza strategica, e segnala che anche i paesi medio-piccoli del Sud-est asiatico intendono giocare un ruolo nella definizione delle regole del nuovo spazio internazionale, schierandosi in modo più esplicito nell’orbita statunitense.
Questo allineamento, tuttavia, non è privo di ambiguità. Da un lato, gli Stati Uniti offrono collaborazione, accesso a progetti comuni, dati satellitari e opportunità di formazione tecnica, dall’altro, gli Artemis Accords comportano una visione del diritto spaziale che non tutti condividono, soprattutto le potenze rivali come Russia e Cina.
La questione più delicata è quella delle “zone di sicurezza”, previste dagli Accordi come aree di attività temporanea attorno a siti lunari o asteroidi, per evitare interferenze fra missioni. Alcuni paesi, tra cui la Cina, le considerano una forma di appropriazione indiretta, in contrasto con il principio di non sovranità dello spazio, mentre Malaysia e Filippine, scegliendo di firmare, hanno implicitamente accettato la visione occidentale della governance spaziale: un passo che può aprire collaborazioni, ma anche esporle a tensioni diplomatiche.
Sul piano tecnico, entrambe le nazioni partono da un livello modesto ma non trascurabile, la Philippine Space Agency (PhilSA) è nata solo nel 2019, ma ha già sviluppato satelliti in collaborazione con il Giappone, come Diwata-1 e Diwata-2, utilizzati per il monitoraggio ambientale e agricolo.

La Malaysian Space Agency (MYSA), più anziana, ha lanciato vari microsatelliti per l’osservazione terrestre e mantiene una collaborazione attiva con agenzie europee e con la NASA.
Entrambe riconoscono nello spazio un settore strategico per la sicurezza e la gestione delle risorse, nonché un volano per la formazione di nuove competenze scientifiche, e con l’ingresso negli Artemis Accords, si aprono per loro nuovi scenari di scambio di dati, partecipazione a missioni multinazionali e accesso a reti di ricerca globali.
L’aspetto forse più interessante è la dimensione simbolica, l’adesione di due paesi che non hanno ancora inviato astronauti o costruito razzi segnala un mutamento culturale, con lo spazio che non è più dominio esclusivo di chi può “salire”, ma anche di chi può partecipare. In questa prospettiva, la collaborazione diventa un modo per condividere la responsabilità di un futuro extraterrestre sostenibile.
Gli Artemis Accords insistono sulla necessità di ridurre i detriti, di condividere i risultati scientifici, di rispettare le risorse lunari e di garantire la sicurezza reciproca, Malaysia e Filippine, entrambe duramente colpite dal cambiamento climatico e dalle calamità naturali, trovano in questi principi un’estensione naturale delle loro priorità terrestri, e usare la tecnologia spaziale per proteggere la vita sul pianeta.
C’è poi un elemento più sottile, quasi filosofico, ovvero l’idea che la conquista dello spazio non sia più una questione di potere, ma di presenza. Partecipare a un progetto come Artemis significa contribuire a costruire un nuovo modo di essere sulla Luna e oltre — non solo per piantare bandiere, ma per creare un ecosistema cooperativo. In questo senso, la firma dei due paesi asiatici si può leggere come una dichiarazione di appartenenza all’umanità spaziale emergente, quella che sta passando dal concetto di “esplorazione” a quello di “abitazione cosmica”.
Dietro ogni firma, tuttavia, si nasconde una strategia nazionale, la Malaysia, con la sua posizione geografica vicina all’equatore, possiede un vantaggio naturale per le future basi di lancio. Le Filippine, invece, vedono nello spazio una frontiera educativa e tecnologica, capace di ispirare una generazione di ingegneri e scienziati.

Entrambe le economie puntano a sviluppare start-up legate ai servizi satellitari e alle comunicazioni, e l’inclusione negli Artemis Accords potrebbe garantire loro un accesso preferenziale a programmi di ricerca finanziati dagli Stati Uniti.
In un mondo sempre più interconnesso, questa scelta rappresenta anche un posizionamento politico, aderire agli Artemis Accords significa accettare un modello di cooperazione guidato dalla NASA e dal Dipartimento di Stato americano, con valori chiari: trasparenza, scambio di informazioni, responsabilità condivisa. È una forma di “soft power” che gli Stati Uniti esercitano con intelligenza: non impongono, ma invitano. E ogni nuova firma rende il consenso internazionale più solido, più legittimato. Non si tratta solo di chi volerà sulla Luna, ma di chi ne scriverà le regole.
Gli Artemis Accords, in questo senso, sono un cantiere giuridico e culturale, mentre i trattati classici nascevano dalla paura del conflitto, questi nascono dal desiderio di collaborazione. Ma come ogni cantiere, hanno bisogno di mattoni diversi: la scienza, la diplomazia, l’immaginazione politica, e con la Malaysia e le Filippine, questi mattoni si fanno più vari, più colorati, più rappresentativi del mondo che verrà.
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