Nel corso della storia, l’antico Egitto ha sempre esercitato un fascino misterioso sull’immaginario collettivo, alimentando miti e leggende su faraoni, piramidi e tesori sepolti, detto ciò la sua storia più intima, quella racchiusa nei geni dei suoi abitanti, è rimasta per lungo tempo inaccessibile, quasi come se le sabbie del deserto l’avessero protetta per millenni.

Oggi, grazie ai progressi della genetica e dell’archeologia, una scoperta eccezionale sta rivoluzionando la nostra comprensione dell’antico Egitto: per la prima volta, gli scienziati sono riusciti a sequenziare il genoma completo di un uomo vissuto durante l’Antico Regno, più di 4.500 anni fa.
Si tratta di un risultato senza precedenti, frutto di un lavoro complesso e delicato, che ha permesso di recuperare il DNA da un individuo sepolto in una tomba scavata nella roccia nei pressi di Nuwayrat, una località situata nel cuore dell’Alto Egitto, a circa 265 chilometri a sud del Cairo. Lo scheletro di quest’uomo, probabilmente un artigiano di alto rango o un individuo legato a un’importante comunità artigianale dell’epoca, era stato deposto con cura all’interno di un grande vaso di ceramica, poi sigillato in modo da proteggerlo dalle condizioni ambientali estreme del deserto.
Questa insolita modalità di sepoltura, comune in alcune comunità dell’antico Egitto, ha rappresentato un fattore chiave nella straordinaria conservazione del materiale genetico.
L’uomo di Nuwayrat, come è stato ribattezzato, visse in un periodo cruciale per la storia dell’antico Egitto: l’Antico Regno, l’età d’oro delle piramidi e dei faraoni, quando la civiltà lungo il Nilo conobbe uno straordinario sviluppo politico, economico e culturale. A quel tempo, l’Egitto era già unificato sotto il dominio di potenti sovrani che facevano costruire monumenti colossali e organizzavano spedizioni commerciali in terre lontane.
Ciononostante, fino ad oggi, mancavano prove concrete che dimostrassero con chiarezza l’entità dei contatti genetici tra gli antichi Egizi e le popolazioni di altre regioni del Vicino Oriente.

I risultati di questo studio, pubblicati il 2 luglio 2025 sulla prestigiosa rivista Nature, hanno sorpreso molti studiosi. Analizzando il DNA dell’uomo di Nuwayrat vissuto nell’antico Egitto, i ricercatori hanno scoperto che la sua ascendenza genetica era composta in larga parte – circa l’80% – da antenati nordafricani, probabilmente discendenti delle antiche popolazioni neolitiche che avevano abitato il Nord Africa migliaia di anni prima.
Ciò che ha tuttavia suscitato ancora più interesse è stato il restante 20% del suo patrimonio genetico, chiaramente riconducibile alle antiche popolazioni della Mezzaluna Fertile, in particolare di quella vasta regione che abbraccia la Mesopotamia e il Levante meridionale.
Questa scoperta, che per la prima volta dimostra la presenza di un collegamento genetico diretto tra l’antico Egitto e il mondo mesopotamico già durante l’antico Egitto, conferma quanto gli scambi culturali e commerciali tra queste aree non fossero limitati al solo commercio di beni o tecnologie, ma coinvolgessero anche spostamenti di persone e mescolanze di popolazioni.
In effetti, già da tempo gli archeologi avevano ipotizzato contatti intensi tra l’Egitto e il Vicino Oriente, basandosi su reperti come il lapislazzuli importato da terre lontane o il tornio da vasaio, una tecnologia che si ritiene introdotta proprio da popolazioni mesopotamiche. Tuttavia, mai prima d’ora una prova genetica aveva confermato in modo così diretto l’esistenza di legami biologici tra questi due mondi antichi.
Cos’altro sappiamo sull’uomo di Nuwayrat vissuto nell’antico Egitto
Lo scheletro stesso racconta una storia interessante; l’uomo era piuttosto anziano per gli standard dell’epoca: aveva circa sessant’anni al momento della morte, un’età notevole in un’epoca in cui la speranza di vita era spesso molto più bassa.

L’analisi delle ossa ha rivelato segni evidenti di osteoporosi e osteoartrite, oltre a infezioni dentali che non erano mai state curate, mentre la sua statura, stimata attorno ai 157-160 centimetri, e la sua robustezza fisica, suggeriscono che si trattasse di un individuo abituato a lavori manuali impegnativi.
In particolare, i segni sulle ossa degli arti inferiori e superiori indicano posture compatibili con l’utilizzo del tornio da vasaio, una posizione che implica lunghe ore trascorse con le gambe piegate e le braccia protese in avanti. Questo dettaglio rafforza l’ipotesi che potesse trattarsi di un artigiano specializzato, forse un maestro vasaio o un artigiano altamente qualificato che godeva di un certo prestigio all’interno della sua comunità.
Il DNA di quest’uomo racconta anche una storia più vasta, che va ben oltre i confini della sua singola esistenza, infatti l’analisi genomica ha mostrato che il suo profilo genetico corrispondeva a una mescolanza tra le popolazioni neolitiche nordafricane e quelle mesopotamiche, suggerendo che, già in epoca predinastica o all’inizio dell’Antico Regno, vi fossero stati movimenti migratori e contatti diretti tra questi mondi.
Questa scoperta conferma che il processo di formazione della civiltà egizia fu molto più complesso di quanto si pensasse, frutto di una lunga serie di interazioni e contaminazioni culturali e genetiche che contribuirono a plasmare l’identità del popolo del Nilo.
Gli studiosi sottolineano comunque un punto essenziale: i risultati ottenuti si basano sull’analisi di un solo individuo, è dunque necessario procedere con cautela e ampliare il campione di studio per poter tracciare un quadro più completo e rappresentativo della popolazione egiziana di quell’epoca. D’altro cano, il valore di questa scoperta resta straordinario, perché apre una nuova via di ricerca che potrebbe riscrivere la storia delle origini della civiltà egizia.

Il successo di questa impresa è stato possibile grazie all’impiego di tecnologie di sequenziamento avanzatissime, che hanno permesso di ottenere un genoma quasi completo da un campione minimo, prelevato dai denti dello scheletro. Queste tecniche, sviluppate nel corso degli ultimi anni, sono in grado di minimizzare i rischi di contaminazione e di recuperare informazioni genetiche anche da resti particolarmente antichi e degradati.
Nel caso dell’uomo di Nuwayrat, il particolare ambiente in cui fu sepolto – fresco, stabile e privo di umidità – ha contribuito in modo determinante alla conservazione del DNA, offrendo così agli scienziati un’occasione irripetibile di esplorare il passato genetico dell’Egitto antico.
Questa scoperta non rappresenta soltanto un traguardo scientifico, ma anche un invito a ripensare la storia delle civiltà antiche in una prospettiva più ampia e inclusiva, in cui la mobilità umana e gli scambi interculturali giocano un ruolo centrale. L’Antico Egitto, troppo spesso rappresentato come un mondo isolato e autosufficiente, emerge ora come una civiltà aperta, in dialogo costante con altre culture del Mediterraneo e del Vicino Oriente, pronta ad assorbire influenze esterne e a trasformarle in elementi fondanti della propria identità.
Questa, in fondo, è la lezione più affascinante che possiamo trarre dall’uomo di Nuwayrat: la storia, anche quella più antica, è sempre il risultato di incontri, migrazioni e intrecci di destini.
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