La compatibilità del gruppo sanguigno ABO tra donatori e riceventi di organi è fondamentale per trapianti sicuri. Tra i diversi gruppi sanguigni ABO, i pazienti con sangue di tipo B spesso sperimentano tempi di attesa più lunghi per un trapianto di rene perché è un gruppo sanguigno ABO meno comune, con conseguente minor numero di donatori.
Il gruppo sanguigno di tipo B è più diffuso tra gli individui neri e asiatici. È più probabile che i neri afroamericani richiedano trapianti di rene rispetto ad altri gruppi, rendendo il numero limitato di donatori di rene di tipo B un contributo alle disuguaglianze sanitarie. Fortunatamente, la ricerca ha dimostrato che gli individui con sangue di tipo B possono tranquillamente ricevere trapianti di rene da un sottogruppo di individui di tipo A (il sottogruppo A 2 ) che hanno livelli ridotti dell’antigene A rispetto ad altri individui A.
Sebbene gli attuali test di routine non siano in grado di identificare tutti gli individui A 2 , i ricercatori del Brigham and Women’s Hospital, membro fondatore del sistema sanitario Mass General Brigham, e altri collaboratori hanno riferito che l’analisi genetica del gruppo sanguigno può essere utilizzata per identificare fino al 65% in più A 2 donatori, aumentando così ogni anno il numero potenziale di trapianti di rene per candidati riceventi con gruppo sanguigno B.
I risultati dello studio sono stati pubblicati
sull’American Journal of Transplantation.
Analisi genetica del gruppo sanguigno: qualche dettaglio sulla nuova ricerca
“L’incompatibilità del gruppo sanguigno ABO tra paziente e donatore di organi è ancora il terzo maggior contributore alla disuguaglianza dei trapianti tra le minoranze”, ha affermato l’autore corrispondente William Lane, MD, Ph.D., del Dipartimento di Patologia. “Introducendo la tecnologia di genotipizzazione, possiamo servire meglio gli individui di tipo B nel sistema dei trapianti e ridurre i tempi di attesa”.
Attualmente, la sottotipizzazione A viene in gran parte eseguita con un test della lectina, un test che utilizza una proteina di origine vegetale per determinare la quantità di antigene A prodotta da un individuo. I ricercatori del Brigham and Women’s Hospital e della Southwest Immunodiagnostics hanno analizzato oltre 750 campioni di donatori di rene di tipo A nei due centri, sottotipizzati sia con i test della lectina che con i test genetici.
In collaborazione con i ricercatori del New York Blood Center, nello studio sono stati incorporati altri 124 campioni con test della lectina inconcludenti per esaminare ulteriormente le discrepanze tra il test della lectina e la genotipizzazione. I campioni sono stati anche esaminati dai coautori del Lund University Hospital per confermare e perfezionare ulteriormente la sottotipizzazione.
Nel complesso, i risultati di questo studio multicentrico suggeriscono che l’attuale tipizzazione delle lectine potrebbe sottostimare il numero effettivo di individui A 2 tra i donatori di rene di tipo A. In particolare, i ricercatori hanno scoperto che i donatori deceduti non sono identificati come individui A 2 con la stessa frequenza dei donatori viventi perché alcuni di questi individui hanno ricevuto trasfusioni di sangue da individui di tipo A 1 (non A 2 ). Poiché il sottotipo A 2 è determinato da un cambiamento genetico nel 98% dei casi, la genotipizzazione del gruppo sanguigno può essere un modo più preciso per identificare gli individui A 2 che presentano variabilità nei livelli dell’antigene A.
Il lavoro è attualmente in corso per dimostrare che i riceventi del gruppo sanguigno tipo B possono ricevere in modo sicuro ed efficace trapianti di rene da individui con genotipo A2. Sebbene la genotipizzazione non sia ancora ampiamente disponibile, gli autori ritengono che la genotipizzazione possa integrare i test esistenti ogni volta che un donatore è stato trasfuso o il test della lectina non è conclusivo e, con efficacia dimostrata, potrebbe eventualmente essere approvato come test di registrazione per la sottotipizzazione.
“La genotipizzazione è un test più specifico per superare i limiti con i test attuali”, ha affermato Lane. “I trapianti sono sempre un atto di bilanciamento delle risorse, ma utilizzando questa tecnologia, potremmo essere in grado di spostare più donatori verso un’area scarsamente servita di candidati in attesa di trapianti”.
Il Luca Dello Strologo, responsabile della Clinica del trapianto renale del Bambino Gesù, ha dichiarato: “Il trapianto è la conseguenza di una grave insufficienza renale, una condizione nella quale i reni non sono più in grado di depurare il nostro organismo dalle scorie, di eliminare l’acqua in eccesso e di mantenere quella che si chiama l’omeostasi – la stabilità – di tutti i sistemi. Per assicurare queste funzioni il paziente deve essere sottoposto alla dialisi.
La qualità della vita tuttavia viene a ridursi, soprattutto per un bambino. E’ facile immaginare le conseguenze sulla frequenza scolastica e anche sulla vita di relazione con i coetanei di un ragazzino legato a una macchina tre volte a settimana per l’emodialisi, oppure tutte le sere per la dialisi peritoneale. E’ chiaro che la possibilità di ricevere un rene sano cambia radicalmente la condizione di vita.
Il rene può essere donato da un soggetto sano, vivente, che, in età pediatrica, è quasi sempre uno dei genitori. Oppure può arrivare da un donatore deceduto, sulla base di una lista di attesa pediatrica che ha carattere nazionale. La distribuzione degli organi viene assicurata con trasparenza assoluta dal Centro nazionale trapianti in modo tale che ogni bambino, in qualunque regione d’Italia, abbia la stessa possibilità di riceverlo.
Ogni volta che si rende disponibile un organo, le sue caratteristiche vengono inserite in un computer che genera automaticamente un elenco di potenziali riceventi che vale solo per quell’organo. Per ogni organo che si rende disponibile, infatti, la sequenza dei donatori sarà diversa.
In questo modo si avrà sempre la possibilità di dare l’organo al bambino che probabilmente avrà la possibilità di farlo durare più a lungo. Il Bambino Gesù è in questo momento il centro più grande. Abbiamo circa un terzo della lista trapianti nazionale: 35 bambini in attesa su circa un centinaio. L’ospedale ha investito molto su questa attività.
Il tempo di attesa è di circa un anno, in media. Il bambino può essere inserito in lista prima che inizi la dialisi, anche se la probabilità che venga chiamato prima è piuttosto bassa. Nella donazione da vivente, invece, il genitore dona quando si ritiene opportuno, cioè quando il bambino è arrivato al punto di entrare in dialisi.
La compatibilità cioè la giusta congruenza tra donatore e ricevente viene definita a priori da un computer che incrocia le caratteristiche del donatore e del ricevente. Esiste un esame finale che si chiama cross match con cui si mette fisicamente in contatto il sangue del ricevente con le cellule del donatore e se ci fosse un ostacolo, questo verrebbe “bloccato”, come si dice in gergo.
In realtà questo esame era molto più importante fino a 10-15 anni fa, ma oggi, con la possibilità di definire anche a livello molecolare la presenza degli anticorpi nel ricevente, la risposta del cross match è quasi sempre prevedibile.
Per la maggior parte delle famiglie, è molto peggio la “calma piatta” – “non sono chiamato, non succede nulla” – piuttosto che essere chiamati per un organo che poi non è adatto. C’è la sensazione che qualcosa si muova: se non è oggi, sarà domani. Qui gioca un ruolo determinante il rapporto di fiducia tra pazienti, familiari e il centro che esegue il trapianto.
Devono sapere che noi facciamo del nostro meglio e fidarsi dei risultati che abbiamo raggiunto nel corso degli anni. C’è un dialogo aperto, ma il mondo del trapianto è molto tecnico e non si può condividere una valutazione su istologia ed eventuali danni con una famiglia. E’ una decisione che per forza deve essere presa dall’équipe medico-chirurgica.
Il trapianto non finisce con l’intervento. La sopravvivenza dell’organo dipende da cosa succederà dopo: i rigetti, le nefropatie, i danni da farmaci, le malattie, le infezioni. Tutta una serie di condizioni future dipendono strettamente da come gestiremo la situazione nel tempo. Ci saranno momenti difficili e il genitore in questi momenti deve potersi affidare con fiducia ai medici.
Se viene a mancare l’alleanza è finita. Il Bambino Gesù ha 25 anni di esperienza nel campo dei trapianti. A 15 anni, il 77% degli organi è ancora funzionante. E’ un dato eccellente che non teme confronti a livello internazionale e i genitori lo sanno.
E’ sempre possibileil verificarsi di un insuccesso , già durante o subito dopo l’intervento: il rene non parte proprio. Oppure, in una fase successiva, a volte anche perché semplicemente il bambino, diventato adolescente e non più sotto il controllo familiare, sospende la terapia. Per capire come accada bisogna mettersi un po’ nei loro panni. Molti bambini hanno malattie congenite, per cui nascono già con insufficienza renale.
Da quando sono piccoli sono posti di fronte a una lunga serie di divieti: non mangiare cioccolata, non bere, non puoi andare alla gita… Dopo il trapianto, a 15-16 anni stanno finalmente bene e, con l’aiuto dei farmaci, riescono a condurre una vita normale. A quel punto può scattare l’impulso a recuperare il tempo perduto dell’infanzia e dell’adolescenza. Non hanno avuto il tempo di crescere.
Vogliono diventare uomini e donne tutto in un colpo, facendo gli errori che gli altri distribuiscono in dieci anni. E ci riescono. E’ facile che ci siano comportamenti sessuali a rischio o si cada nella tossicodipendenza. Accade anche che sospendano la terapia o la adattino a una propria personale tabella di somministrazione.
È la prima causa di perdita degli organi, non solo in Italia ma ovunque. La fascia d’età dai 17 ai 24 è la high risk window, una finestra d’alto rischio. Da noi la fascia a rischio è un po’ spostata – verso i 19 anni – perché in Italia i diciassettenni subiscono ancora il controllo familiare. In Nord Europa e in Nord America il distacco è più precoce. Vengono compromessi molti trapianti in questo modo. Anche in questa fase è molto importante il rapporto di fiducia con il medico.
Al Bambino Gesù vengono indirizzati i bambini con patologie sempre più complicate. Adesso stiamo sviluppando anche i programmi di trapianto in bambini con malattie metaboliche che pochi centri sono in grado di gestire. Non è un caso che il nostro ospedale sia a capo di un coordinamento mondiale per la definizione delle strategie di trapianto per una malattia metabolica rara che si chiama acidemia metilmalonica: insieme con i dottori Dionisi e Spada, cerchiamo di definire quale sia il protocollo ideale per questa patologia.
Eseguiamo trapianti sempre più complessi ricorrendo sempre più al trapianto da vivente. Questa è una vera innovazione. Negli ultimi 10 anni siamo passati dal 3% al 40% di trapianti da vivente. E’ un grande cambiamento rispetto al passato e continueremo a lavorare in questa direzione. Magari in futuro sarà possibile passare anche alla chirurgia robotica.
Abbiamo una serie di sfide che ci aspettano. Ci sono sfide a livello tecnico, come le nuove metodiche di perfusione ex vivo dell’organo che è un tema che in questo momento riguarda più il fegato e il polmone che il rene, ma in futuro questo potrebbe cambiare. La possibilità di inserire questi organi in una macchina e farli durare un po’ di più in modo tale da poter allungare il tempo di ischemia – cioè il tempo in cui l’organo non è perfuso, non è nella pancia del bambino – consente di migliorare il risultato una volta fatto il trapianto.
Lavoriamo molto sulla formazione condividendo la nostra esperienza. Al Bambino Gesù abbiamo gli specializzandi di Tor Vergata, Sapienza, Gemelli, S. Andrea e in tanti vengono per il master in nefrologia da varie parti d’Italia, oltre ai numerosi rapporti di collaborazione con l’estero. L’obiettivo è fare sempre meglio quello che stiamo già facendo”.
Per quanto riguarda i trapianti di rene in Italia, secondo il Ministero della Salute: “In questo momento in Italia sono attivi 38 centri per il trapianto di rene. I trapianti di rene eseguiti nel periodo 2000-2019 sono stati 35.990, di cui 32.208 da donatore deceduto e 3.782 da donatore vivente. Il tasso di sopravvivenza per i trapiantati da donatore deceduto va dal 97,3% a un anno dall’intervento fino all’82,9% a 10 anni, mentre per chi ha ricevuto un rene da donatore vivente la percentuale di sopravvivenza a un anno è del 98,8% e scende a 91,7% a 10 anni”.
Il Centro nazionale trapianti ha pubblicato una nuova edizione, aggiornata al periodo 2000-2019, del rapporto sulla valutazione dei risultati dei trapianti di rene eseguiti in Italia e sulla qualità dei centri di trapianto attivi nel nostro Paese.
Il rapporto analizza l’intero percorso assistenziale dei pazienti, dall’iscrizione in lista d’attesa alla probabilità di essere trapiantato fino ai risultati del trapianto e al monitoraggio nella fase post-trapianto e di follow-up.