L’Alzheimer non finisce mai di stupire… in negativo. Per decenni si è pensato che il grasso presente nel cervello fosse solo un sottoprodotto, una sorta di spazzatura biologica senza un ruolo attivo nelle malattie neurodegenerative, tuttavia una una recente ricerca della Purdue University ribalta questa convinzione, indicando il grasso intracerebrale come fattore chiave nella progressione dell’Alzheimer.

Lo studio, pubblicato sulla prestigiosa rivista Immunity, mostra che l’accumulo di lipidi nelle cellule immunitarie del cervello (le microglia) ne compromette gravemente la funzione, rendendole incapaci di contrastare efficacemente la malattia.
Alzheimer: non solo placche e grovigli
La ricerca, guidata da Gaurav Chopra, professore di chimica e informatica alla Purdue University, propone un approccio alternativo alla lotta contro l’Alzheimer. Mentre la maggior parte degli studi e dei farmaci si concentra sulle due principali caratteristiche patologiche (placche di amiloide beta e grovigli della proteina tau) Chopra e il suo team hanno puntato l’attenzione su un altro indizio ignorato per troppo tempo: il grasso.

“Ridurre l’accumulo di grasso nel cervello malato è la chiave”, spiega Chopra. “Il grasso ostacola il sistema immunitario, impedendo alle cellule come le microglia di svolgere il loro compito: mantenere l’equilibrio e combattere la malattia.”
Le microglia sotto attacco (di grasso)
Le microglia sono cellule specializzate del sistema immunitario presenti nel cervello. Hanno il compito di “ripulire” l’ambiente da proteine mal ripiegate come l’amiloide beta, tramite un processo chiamato fagocitosi.
Ma cosa succede quando queste cellule si trovano troppo vicine alle placche di amiloide beta?
Analizzando campioni cerebrali di pazienti con Alzheimer, il team ha scoperto che le microglia entro 10 micrometri dalle placche contengono il doppio dei depositi lipidici rispetto a quelle più lontane. E la loro capacità di rimuovere l’amiloide beta è ridotta del 40%.
L’origine del problema: l’enzima DGAT2
Il meccanismo alla base di questo accumulo è stato ricostruito con precisione: in presenza di infiammazione e placche, le microglia cominciano a produrre grandi quantità di acidi grassi liberi, che normalmente servono come fonte di energia; tuttavia, anziché utilizzarli, le microglia li convertono in triacilglicerolo, una forma di grasso immagazzinato.

Il colpevole? Un enzima chiamato DGAT2, che catalizza l’ultimo passaggio della trasformazione dei grassi. A causa di un malfunzionamento, questo enzima non viene degradato correttamente e si accumula, portando le cellule a immagazzinare grasso invece di bruciarlo.
“L’amiloide beta è direttamente responsabile della formazione di questi accumuli di grasso all’interno delle microglia”, afferma Chopra. “Una volta sovraccaricate, le cellule smettono di fare il loro lavoro.”
Nuove strade terapeutiche: bersagliare il metabolismo dei grassi
La buona notizia è che questo processo è potenzialmente reversibile. Il team ha testato due molecole:
- una capace di inibire l’attività dell’enzima DGAT2
- un’altra che ne favorisce la degradazione
Entrambe le strategie hanno dato risultati positivi nei modelli animali: riduzione dell’accumulo lipidico, recupero della funzione microgliale e miglioramento dei marcatori di salute neuronale.
“Ripristinare il metabolismo delle microglia può significare ripristinare la difesa naturale del cervello contro l’Alzheimer”, concludono Priya Prakash e Palak Manchanda, co-autrici dello studio.
Un nuovo modello lipidico della neurodegenerazione?
Chopra non ha dubbi: il suo team ha gettato le basi per un “nuovo modello lipidico della neurodegenerazione”, dove i grassi non sono semplici spettatori ma protagonisti silenziosi ma letali e invita la comunità scientifica a ripensare radicalmente il modo in cui affrontiamo le malattie cerebrali legate all’invecchiamento.

Il progetto è parte della One Health Initiative della Purdue University e ha ricevuto il sostegno del Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti e del National Institutes of Health (NIH).
Perché è importante?
In un’epoca in cui i farmaci anti-Alzheimer faticano a dimostrare reali benefici a lungo termine, scoperte come questa offrono nuove prospettive terapeutiche. Prendendo di mira non più solo le proteine tossiche, ma anche il metabolismo lipidico e il sistema immunitario del cervello, potremmo finalmente riuscire a prevenire e rallentare le malattie neurodegenerative alla radice.